Un maledetto imbroglio di Pietro Germi di Rita Mascialino

Un maledetto imbroglio di Pietro Germi di Rita Mascialino

Category: Argomentazioni in Primo Piano,

LA SETTIMA ARTE, Rubrica di Critica Cinematografica a cura di Rita Mascialino in 'Lunigiana Dantesca', CLSD Centro Lunigianese di Studi Danteschi

Un maledetto imbroglio di Pietro Germi

di Rita Mascialino

Un maledetto imbroglio (1959) è un film in bianco e nero di Pietro Germi (Genova 1914 – Roma 1974), sceneggiatura di Pietro Germi, Alfredo Giannetti e Ennio De Concini, restaurato da Cinema Forever del Gruppo Mediaset, versione di cui si è servita la presente analisi semantica.
Lo spunto per il titolo e per il contenuto generale del film deriva dalla riduzione libera di un’opera letteraria, il romanzo di Carlo Emilio Gadda (Milano 1893 – Roma 1973) Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1946/1957), romanzo relativo alla rappresentazione di una varia umanità e ambientato nella Roma dell’epoca fascista. Nel film di Germi vi è un aggancio in negativo al trascorso regime fascista nella fotografia di Remo Banducci ritratto con le insegne del Fascio, riposta in uno sgabuzzino a metafora del luogo più consono al fascismo stesso. Il romanzo voleva essere nelle intenzioni del suo autore un poliziesco e non lo fu, non essendo l’indagine portata a termine nel volume pubblicato. Pare anche che Germi non riuscisse a leggere tutto il romanzo di Gadda, per affrontare il quale, pur essendo esso senz’altro interessante, sarebbe occorsa più pazienza di quanta ne avesse a disposizione Germi. L'opera ha funto quindi solo da spunto piuttosto generico a Germi per il suo film poliziesco basato, come pretende normalmente il genere, su un’indagine che individua il colpevole. L’arrangia-mento si identifica pertanto nell’ambientazione romana, per altro variata, ad esempio non Via Merulana, ma Piazza Farnese, e in qualche cenno qui e là. In aggiunta, a parte tutte le modifiche necessarie alla trasformazione intersemiotica, l’analisi ha fatto emergere un tema profondo, diverso da quello inerente all’evento poliziesco e diverso da quanto presente nel romanzo, una tematica che si può definire germiana, di orizzonte più universale, che sviluppa un argomento importante già presente per certi aspetti nei precedenti film della cosiddetta Trilogia germiana (Mascialino 2020, Lunigiana Dantesca nn. 163, 164).  Come esempio di una trasformazione citiamo un riferimento relativo al commissario. L’Ingravallo di Gadda è un personaggio lento, apparentemente assonnato – lo sarà comunque nel film il maresciallo Saro che sarà spesso assonnato fino ad addormentarsi più volte durante l’indagine –, presentato sempre con la sigaretta spenta a penzoloni dalle labbra, un uomo non affatto elegante, non particolarmente amante della pulizia personale, tra l’altro la cagnetta pechinese di casa Balducci, cognome che nel film diviene Banducci, gli annusa a lungo le scarpe (Gadda 1957/2007, 6).
L’Ingravallo di Germi è un’indimenticabile figura di commissario di polizia assai dinamico, mai assonnato, con il sigaro in bocca o fra le dita sempre acceso e in uso, elegante, amante della pulizia personale: accanto all’aspetto sempre ordinato e lustro si lava le mani in ufficio durante le indagini – le mani pulite in particolare hanno, così evidenziate, anche un senso metaforico di onestà. Azione, quella del curare la pulizia personale, ricorrente nel Ferroviere e, specificamente al lavarsi le mani in casa e il viso alla fontana, anche nell’Uomo di paglia sebbene in quest’ultimo con una semantica non solo relativa alla pulizia (dettagli in Mascialino 2020: Lunigiana Dantesca nn. 163, 164). Questo per dare un flash iniziale su una diversità non del tutto irrilevante tra le due opere di Gadda e di Germi.
Venendo dunque al film, vediamo dapprima in sintesi la trama generale funzionale a circostanziare la successiva analisi semantica.
In un palazzo di Piazza Farnese a Roma, abitato da benestanti e anche ricchi borghesi, viene commesso un furto presso il commendator Anzaloni, che non vorrebbe fare pubblicità dell’evento sui giornali in quanto teme che la sua vita di omosessuale frequentante locali in cui recluta giovani prostituti possa così venire portata alla luce della cronaca.
A proposito degli omosessuali, il commissario non li apprezza, come si nota dall’atteggiamento verso il commendator Anzaloni e anzi dice ciò che viene condiviso dal maresciallo che sta vicino a lui nel mentre. Tuttavia, in altra occasione, ha un occhio di compassione su di lui: quando il commendatore dice di non fare tanta pubblicità sul furto appunto perché non si sappia della sua omosessualità e glielo chiede disperatamente in nome di sua madre, il commissario gli risponde dicendo che farà il possibile e gli dice anche di tornare a letto per non prendere freddo, paternamente, con umanità.
Del furto viene sospettato Diomede Lanciani, il fidanzato di Assuntina, donna di servizio di Liliana Banducci, il quale ruba negli appartamenti e si prostituisce all’occasione con mature donne danarose e forse solo di facciata fa l’elettricista utilizzando tale mestiere soprattutto per prendere visione delle case in cui poi andare a rubare – non riesce ad aggiustare l’impianto in Casa Banducci che continua a non funzionare dopo il suo intervento. Per il furto in Casa Anzaloni ha un alibi confermato dopo qualche difficoltà dalla matura americana con cui stava mentre veniva commesso il furto stesso. Pochi giorni dopo viene uccisa nel medesimo condominio Liliana Banducci. Vengono sospettati il marito Remo, interpretato dall’ottimo Claudio Gora (che vinse il Nastro d’Argento quale miglior attore) e il cugino Valdarena, entrambi poi scagionati dalla possibile accusa vista la validità dei loro alibi. Prima di identificare il colpevole dell’omicidio l’indagine porta comunque il commissario a scoprire i retroscena equivoci di tanti personaggi facenti parte della vicenda. Il colpevole, questa volta veramente Diomede Lanciani, viene smascherato per un errore da lui commesso a proposito della chiave dell’appartamento dei Banducci: sottratta la chiave dalla borsa di Assuntina senza che questa se ne accorga, Diomede ne fa un doppione. Quando rimette
la chiave nella borsa di Assuntina, invece di mettere l’originale mette per sbaglio il doppione nuovo, che a delitto compiuto viene consegnato al commissario proprio da Assuntina che crede sia la chiave sua di casa Banducci, che aveva in possesso in qualità di donna di servizio. Quando il commissario sta per archiviare il caso per difficoltà di identificare il colpevole – cenno di collegamento al romanzo dove il commissario non riesce a individuare l’assassino –, si rende conto del fatto che la chiave singola, che gli ha consegnato Assuntina, è un doppione come dal confronto con la chiave nel vecchio mazzo dell’assassinata in suo possesso. Grazie al riconoscimento del doppione viene dunque identificato l’omicida in Diomede.
Questa la trama grossa del film. Venendo all’analisi, questa si è estesa principalmente sullo schema fornito da due tematiche ritenute fondamentali e alle quali l’indagine poliziesca funge da canovaccio nell’espressione del complesso messaggio del film: una relativa al significato molto particolare delle ombre e alla presenza dei presagi, l’altra relativa alle conseguenze della degenerazione dell’istinto materno e sessuale in un determinato tipo di donna rappresentato eminentemente, ma non solo, in Assuntina, ciò tenendo conto in aggiunta del corollario di ulteriori temi presenti nell’opera.
Cominciamo con l’analisi delle ombre dei personaggi le quali indossano un ruolo rilevante per il significato profondo del film unitamente ai presagi.
Ombre più o meno marcate e numerose sono presenti nella realtà come fenomeno fisico ove vi sia della luce. Nelle opere d’arte le ombre, oltre a rientrare nell’ambito dei fenomeni ottici, diventano non di rado attributo tecnico importante dal punto di vista semantico-emozionale, per fare qualche nome celebre tra gli altri basti pensare a Caravaggio e al cinema muto ed espressionistico di Robert Wiene o di Fritz Lang, nei quali le ombre e i chiaroscuri sono elaborati con la finalità di
esprimere particolari significati ed effetti psicologici. Germi, appassionato di ombre e chiaroscuri specialmente importanti nei suoi film in bianco e nero, esprime in questo film attraverso di essi, sottilmente, significative simbologie.
Quale indice emblematico delle potenzialità semantiche dell’ombra in Un maledetto imbroglio sta ai primi inizi del film la sagoma totalmente nera del commissario nel controluce in cui esce a passo deciso dall’androne del palazzo dopo che è stato commesso il furto in Casa Anzaloni. Si tratta di una silhouette intensamente nera che, pur non essendo un’ombra, rende ombra il commissario stesso, un’ombra dotata di vita propria. Appena uscita la sagoma dal controluce, il commissario, giunto in luce diretta nel concreto di cui vive il quotidiano e divenuto per così dire persona in carne ed ossa, si gira a guardare il caseggiato in alto dove sta l’appartamento in cui è avvenuto il furto. L’azione sembra di primo acchito non avere grande senso in sé nella vicenda e di fatto non ne ha molto in seno agli eventi, potrebbe essere che il commissario abbia voluto semplicemente vedere dall’esterno il palazzo, azione che resta però senza ulteriori agganci o conseguenze nel prosieguo e pertanto stranamente presente nella sequenza.
L’immagine del commissario che si pone per qualche secondo frontalmente al palazzo ottiene un senso qualora venga messa in relazione alla sua precedente immagine nera: il personaggio si volge indietro, una volta in strada e in piena luce, e così diviene un visibile polo opposto alla precedente sagoma del controluce. La sua figura non è più simile a una silhouette, a un’ombra ed è simile, anche se il bianco e nero è cromia che toglie di per sé le immagini dalla realtà che è a colori, a una persona del consueto quotidiano. Ma proprio in questo consueto quotidiano la persona del commissario, in comparazione, si fa meno incisiva, le varie tonalità del grigio in cui si mostra il commissario nella vita reale e concreta lo fanno apparire
più evanescente di quanto appaia la sua sagoma nera e compatta. In tal modo, nel contesto delle due immagini contrapposte – la posizione l’una di fronte all’altra sottolinea la contrapposizione – emerge come l’impalpabile realtà dell’ombra, enfatizzata metaforicamente nella scurissima sagoma del controluce, sia più incisiva rispetto a quanto contraddistingue in linea di massima la normale vita degli umani. Ora il cinema vive di immagini che sono come ombre rispetto agli umani in carne ed ossa e nella contrapposizione testé accennata dell’immagine del commissario proiezione del regista il mondo umbratile del cinema, simboleggiato nella sagoma nera, appare per così dire più solido rispetto alla vita concreta e materiale, ossia, nel confronto tra cinema e vita, più capace di durare nel tempo, di vivere una vita, se non eterna, senz’altro meno caduca di quella degli umani in carne ed ossa. Al proposito vi è nel film una breve proiezione di una pellicola, un piccolo film dentro il film. Si vedono il commissario e gli agenti mentre guardano la pellicola al buio nel controluce come ombre nerissime, mentre le persone presenti nella proiezione che riprende scene del reale sfumano nei toni del grigio e del nero spento o grigio più scuro, anche bianco dei fiori del funerale, di nuovo una contrapposizione tra il nero delle sagome in controluce come ombre personificate e pregnanti e le immagini piuttosto sbiadite delle persone riprese dal reale quotidiano, nello specifico dal funerale dell’assassinata, contrapposizione che si associa all’opposizione di cui sopra evidenziandone maggiormente il significato. Non a caso il commissario, dal buio del controluce e in qualità di sagoma e ombra, osserva come la Assuntina nella luce del quotidiano reale sembri più vecchia, rimando alla condizione degli umani quali esseri transeunti rispetto alla vita incorruttibile del cinema, delle sue ombre.
Anche il ladro di Casa Anzaloni esce dal palazzo nel controluce, correndo a più non posso per non
essere acciuffato, ma la sua sagoma scura si vede per un brevissimo flash e non si nota grande differenza tra l’immagine in controluce e quella in luce diretta. Si tratta di un’immagine che non si riferisce alla simbologia di cui sopra, di cui è portatore il commissario regista.
Diomede, a delitto compiuto, viene inquadrato anch’egli nel controluce come sagoma nera mentre esce a passo sostenuto dall’androne, in una metaforica evoluzione della sua ombra grigia agli inizi del film di cui fra poco i dettagli. Questa azione è posta alla fine del film, riguarda il flashback relativo alla confessione dell’assassino che ricostruisce il delitto nell’interrogatorio del commissario in presenza dei suoi agenti stando nella sua casa stessa in cui è stato fermato. L’ombra nera di Diomede assume nel frangente valenza per la negatività dell’assassino. Fuori dall’androne Diomede appare nei panni esteriori dell’uomo qualsiasi. Del delitto resta visibile solo una grossa macchia di sangue sui pantaloni, mentre la mano prima insanguinata risulta pulita, come pure viene riposto in una tasca della giacca il cacciavite, l’arma del delitto, così che il ladro e assassino possa andare nel mondo sociale con le mani nette e la facciata salva. La figura di Diomede come sagoma e ombra nerissima nel controluce e di Diomede nella luce diretta come uomo del normale quotidiano mette in rilievo l’ipocrisia di cui si veste l’uomo nella vita sociale in generale: l’ombra nera è portatrice della verità dell’anima di Diomede, la sua immagine nel reale, più sfumata, dissimula e nasconde l’anima nera.
Il senso di caducità della vita espresso dalla presenza delle persone del concreto e materiale quotidiano secondo quanto testé rilevato, si ritrova nelle immagini dei titoli di testa e di coda. Nei titoli di testa viene inquadrata quasi per tutta la durata degli stessi la fontana di Piazza Farnese che sta di fronte al palazzo, ciò sullo sfondo musicale della canzone Leitmotiv della colonna sonora che esprime il nucleo
semantico centrale e profondo del film che, ripetiamo, non è la vicenda poliziesca e di cui nel prosieguo dell’analisi. La fontana mostra acqua che zampilla e fluisce sempre nuova e continuamente, traboccando e cadendo dal primo più piccolo livello in alto nella grande vasca a sua volta posta su un’altra vasca con ulteriori zampilli, acqua che fluisce in basso dileguandosi in un metaforico sottosuolo, come immagine per lo scorrere inafferrabile della vita e per la sua dispersione, per la sua caduta a terra e anche sottoterra. Alla fine di tali titoli il palazzo, inquadrato con un lento movimento di macchina dal basso verso l’alto che mette in evidenza l’imponenza dell’edificio, sembra disabitato, con grandi spazi vuoti e bui o semi bui che accompagnano le scale e associano un’immagine cimiteriale collegata alla simbologia intrinseca allo scorrere dell’acqua testé accennato. Un luogo non lieto per come viene presentato, non un luogo di vita e non solo per via dell’omicidio che avverrà in uno dei suoi appartamenti, ma anche come metafora per un’umanità destinata a scomparire e a lasciare dietro di sé il vuoto. Vi è una conferma di questa immagine cimiteriale ai primi inizi del film: mentre un giovanissimo cameriere sale le scale – non è ripreso mentre scende, la sua vita è ancora in ascesa
– per portare la colazione ad alcuni clienti nel palazzo, viene inquadrata, ad hoc, la nicchia a tutta parete a lato del pianerottolo tra una rampa e l’altra con l’opaco lampioncino molto simile ai lampioni di un cimitero, poi la macchina si sofferma in un dettaglio per un paio di secondi, ossia sull’incavo circolare nella nicchia compreso il lampione dalla luce opaca, così che l’associazione con un possibile monumento tombale si fa ancora più diretta. L’immagine cimiteriale assieme allo scorrere dell’acqua nella fontana, come accennato, rimanda alla caducità della vita in generale, ma separata dallo scorrere è anche o soprattutto metafora dell’umanità borghese e ipocrita, ciò in piena assonanza con l’immagine del Vangelo (Edizioni Paoli-
ne 1963: Matteo, 23, 27-28) come nelle parole di Cristo: un’umanità fatta di sepolcri imbiancati, proprio come appare il caseggiato nella ripresa che ne fa Germi affine a un insieme di sepolcri, imbiancati perché nascondano la putredine sotto una facciata di pulizia. Più avanti nel film, dopo che Banducci ha confessato la sua tresca con una giovinetta, il commissario afferma che le cose stanno come quando in campagna si muovono i sassi e sotto si trovano i vermi, ciò di nuovo in associazione all’immagine dei sepolcri imbiancati con quanto si collega ad essi.
Inseriamo una nota sul parallelismo per contrasto e anche per somiglianza tra il palazzo e l’abitato povero in cui vivono Assuntina e Diomede a Sacrofano (www.davinotti.com), poco distante da Roma, nel finale del film, subito prima dei titoli di coda. Qui si è di fronte a un’estesa decadenza, la povertà mostra tutta la sua bruttura, vi è anche qui una scalinata, ma diroccata e mal tenuta, tutt’intorno si vedono decrepitudine, rovina, incuria, si accenna anche non a una fontana, comunque a un fontanone nei pressi dei fatiscenti edifici. La casa che sta in cima alla scala, più che povera, si allaccia al degrado morale di chi ci abita: un assassino e una donna che lo copre e si rende così altrettanto colpevole se non più colpevole di lui. Dal punto di vista dell’umanità che vive nel palazzo a Roma e nella palazzina fuori Roma la differenza non è così evidente come quella tra la ricchezza e la povertà degli ambienti. Da un lato un’umanità borghese, ipocrita e marcia: Remo Banducci con la sua frequentazione di mezzane e con le sue relazioni con ragazzine, inoltre un anziano signore che si dichiara per bene, ma non vuole che si venga a sapere che frequenta un locale per giovanetti onde reclutare coloro tra essi che si prostituiscono, dall’altro lato un ladro e omicida e una donna disonesta che lo vuole sottrarre e lo sottrae finché può alla giustizia. Sembra che in questo film moralmente si salvino
in pochi sia nel ceto ricco che in quello povero.
Ora una breve parola sui titoli di coda dietro ai quali stanno non più la fontana e il palazzo, ma solo la fontana con il suo perenne e impersonale zampillare e disperdersi dell’acqua verso il basso, ripetizione della metafora di cui il cenno più sopra per come tutto passi nell’esistenza delle persone in carne ed ossa e passi la vita stessa – non per caso Germi ha scelto Piazza Farnese con la fontana di antica storia e non la Via Merulana di Gadda per ambientare la sua storia.
Tornando alle ombre, viene dunque data nel film una piuttosto ampia visibilità sia alle ombre proprie, quelle che la luce genera sul corpo stesso della persona, sia alle ombre portate, quelle proiettate dal corpo su altra superficie che ne riflette con varianti prospettiche la forma, con corrispondenza ad una semantica voluta intenzionalmente dal regista.
Le ombre proprie danno alle immagini spesso contrasti di chiaro e scuro anche piuttosto notevoli, dove la parte scura occupa in più di un’occasione spazio maggiore di quella in luce. In questo modo le immagini fortemente ombreggiate danno l’impressione che le persone siano ombre più che corpi, in ciò evidenziando come l’ombra sia in questo film una componente importante dell’uomo in carne ed ossa, per certi aspetti più importante – vedremo più oltre in dettaglio.
Quanto alle ombre portate, ve ne sono di vario genere. Per quanto riguarda le ombre proiettate sui corpi di altri personaggi e che si intersecano e si sovrappongono fra di loro talora non rendendo più riconoscibile l’appartenenza di ciascuna, esse rendono in compenso visibile sul piano metaforico l’idea di un disordine di identità e di azioni apparentemente inestricabili – con qualche corrispondenza intersemioticamente trasformata sul piano iconico con lo gnommero o gomitolo, con il groviglio sociale di Gadda (1957/2007: 4) –, quel disordine che il commissario vorrebbe dipanare e che il regista padrone delle ombre vorrebbe
chiarificare attraverso l’arte cinematografica. Certo l’ombra, metafora per eccellenza del doppio nella personalità degli umani, non di rado ottiene un’evidenza particolare proprio nei film dell’ambito che la cultura italiana definisce del Giallo, dove l’identità degli assassini che premeditano il delitto si nasconde talvolta nell’ombra che li precede, li segue o li affianca senza che venga visto il loro volto di persone concrete, così che non si sappia chi sia l’individuo in carne ed ossa e si veda solo l’immagine inquietante della sua intenzione non rivelata, ma intuibilmente non positiva, ciò che crea paura e suspense nello spettatore data l’oscurazione dei tratti identitari e lo spavento più o meno grande e di varia natura che secondo i contesti ne consegue. Tuttavia in questo film, pur poliziesco in piena regola, Germi non utilizza lo strumento dell’ombra con la finalità di creare paura. Nel film non è mai o quasi mai Diomede, l’omicida, ad essere accompagnato dalla sua ombra e quando accade che la sua ombra lo accompagni ciò non crea mai suspense. È l’ombra di un uomo dappoco, di un poveraccio come di fatto è questo personaggio che uccide senza propriamente volerlo, per pura perdita di controllo durante il furto che degenera in rapina a mano armata con omicidio. Si tratta di un’ombra quasi sempre sbiadita, evanescente, di un grigio chiaro e dai contorni non particolarmente netti, ossia in un chiaroscuro appena accennato e anche quando è nera – vedi la sagoma nel controluce – non fa propriamente paura, come anche, quando apre la porta di Casa Banducci con l’intenzione di rubare i gioielli della signora che poi ucciderà, la sua ombra nera si riflette sì compatta sul portoncino come decisa è la sua volontà di compiere l’azione illegale, ma non crea suspense, è un’ombra nera perché è presaga del delitto che l’uomo compirà, certo senza averlo premeditato, ma avendolo comunque, del tutto inconsciamente, previsto, come la sua ombra scura portatrice del suo inconscio già sa.
Per chiarire un concetto fondamentale a monte della presenza di ombre significative relative a diversi personaggi della vicenda, riflesse su porte, pareti, mobili e messe appositamente in maggiore risalto nelle inquadrature, si ha a che fare con ombre che qui definiamo sapienti per intenderci, ombre rappresentative dell’inconscio, del lato oscuro della personalità dei loro proprietari le quali pare sappiano di più di quanto i proprietari sappiano su se stessi.
Diamo qualche esempio esplicativo di quanto affermato.
Interessante al proposito è ai primi inizi del film la più sopra accennata ombra grigia di Diomede
– ancora non vi è l’audacia dell’ombra nera fornita dalla rapina e dal crimine. Come anticipato, Diomede viene riconosciuto non colpevole del furto avvenuto in Casa Anzaloni, é in possesso di un alibi confermato, quello del prostituto di donne mature. Viene quindi congedato dal commissario e sbaglia porta di uscita. Il commissario indirizza allora Diomede – molto malamente, in quanto intuisce la potenziale pericolosità insita in un tale individuo senza onore – verso l’uscita che sta dall’altra parte, così l’uomo torna indietro visibilmente imbarazzato per aver dovuto ammettere di prostituirsi e svolta alla sua destra verso l’uscita indicata dal commissario. Per l’apposito gioco di luci e della ripresa la sua ombra, profetica per usare un termine di amletica memoria, non lo accompagna nell’uscire, bensì, come viene messo in particolare evidenza nell’inquadratura ad hoc, si muove in modo indipendente dal suo proprietario, come disincarnata e in direzione opposta all’uscita verso la quale si sta dirigendo l’uomo in carne ed ossa, così che le due identità, quella conscia e quella inconscia, si vedono chiaramente nell’immagine, ciò in un’anticipazione del futuro destino cui sta andando incontro il personaggio, un po’ come se l’ombra ne aspettasse il ritorno in commissariato per la possibile e incombente azione delittuosa, quasi fungendo da sinistro richiamo di verità a
Diomede che inutilmente se ne sta andando credendosi libero, ma essendolo a sua insaputa ancora per poco. In altri termini: il sospettato è libero perché è riconosciuto non colpevole del furto in casa del commendatore, ma la sua ombra, il suo sé più profondo, più inconscio e più veritiero, più sapiente di lui, torna indietro grazie agli effetti illusionistici resi visibili appositamente alla parete e rimane dal commissario come se sapesse che il suo proprietario sarebbe tornato presto per restare per sempre a causa del prossimo omicidio. Un omicidio, come anticipato più sopra, non premeditato, ma neanche escluso, come ben sa il profetico lato oscuro. A conferma della negatività dell’uomo, del prostituto, il commissario dice subito dopo ad Assuntina, che attende l’esito dell’interrogatorio in un altro corridoio, che farebbe bene a lasciare il suo fidanzato, che sì non ha commesso il furto, ma poteva commetterlo perché persona non raccomandabile, consiglio rifiutato da Assuntina che non sente ragioni sulla natura di colui che essa vorrà come suo marito, anche quando saprà che si tratta di un assassino e per di più di Liliana Banducci, la sua benefattrice.
A proposito di premonizioni inconsce in questo film piuttosto particolare, oltre alle ombre sapienti, vi è l’episodio della bambola, il quale non sta nel romanzo di Gadda – nel romanzo sta solo citata una “pupazza” (Gadda 1957/2008: 80) che Ingravallo avrebbe regalato alla ragazzina se avesse testimoniato dicendo la verità su Valdarena, se lo avesse o meno visto sulle scale il giorno del delitto, così a detta della madre, ma non vi è null’altro nel romanzo su pupazze e bambole, per cui l’episodio va attribuito a Germi, al suo film, al suo messaggio. Dunque il commissario, che ha preso in mano una bella bambola seduta in una poltrona del soggiorno, chiede alla Banducci se sia un ricordo d’infanzia. Liliana Banducci rievoca l’evento che si riveste nel film di presagi inquietanti di cui la donna non è consapevole, ma che si avvereranno di lì a poco. Il padre si era fermato davanti a un negozio di giocattoli e aveva visto una bambola che a suo dire assomigliava alla figlia. Anche il commissario riconosce come forse le assomigli. È orario di chiusura e le luci della vetrina vengono improvvisamente spente. Allora la bimba si mette a piangere, non tanto perché voglia la bambola, ma perché le luci si sono oscurate sulla bambola. La Banducci si chiede come mai si sia messa a piangere allo spegnimento della luce e sorride per questa sua reazione che ritiene infantile e il cui significato non comprende. La domanda però risulta, nel film, funzionale a fermare l’attenzione proprio sulla presenza e, visto il vicino omicidio, sulla validità dei presagi più o meno inconsci. Nelle luci che vengono spente sta l’anticipazione profetica del possibile destino crudele di morte prematura e violenta, come se le persone portassero dentro di sé il loro destino già segnato, e nel pianto della piccola pare appunto esserci un presagio del tutto inconscio di quanto accadrà a lei stessa. Il peggio in fatto di presagi lugubri è che il padre non lasci perdere, bensì insista ed entri nel negozio chiedendo al proprietario di vendergli la bambola. In tal modo la può dare alla piccola – che le assomiglia –, sul piano simbolico come a ribadirne il destino che le consegna in mano, ossia di cui le fa sinistramente quanto inconsciamente dono. Per concludere l’episodio: il commissario prima di uscire da Casa Banducci, avendo intuito la natura non lieta dell’evento relativo alla bambola riferito dalla signora, non solo la saluta, ma la prega di portare ad Assuntina i suoi auguri per il vicino matrimonio, dopo di ciò però fa gli auguri per altro con tristezza anche alla Banducci sebbene non ve ne sia un motivo evidente, salvo appunto che nell’intuizione del commissario del significato premonitore dell’episodio. Per quale motivo Germi inserisca l’episodio della bambola è facilmente deducibile: proprio per dare il maggiore spazio alla presenza e validità dei presagi inconsci e la scelta della bambola
al proposito – poteva essere un qualsiasi altro episodio o oggetto – pare collegarsi per qualche aspetto alla tradizione popolare più antica secondo la quale le bambole portavano fortuna, ma anche destino di morte.
In questo film, le ombre sapienti, oltre all’episodio ora citato, sembrano deporre a favore di una sensibilità particolare di Pietro Germi per i segni per così dire fatali quali premonizioni o particolari coincidenze – nell’analisi del significato dell’arte non si può mai spiegare l’opera con la biografia, ma eventualmente si può andare dal significato dell’opera alla personalità dell’artista, alla sua biografia, come nell’ipotesi testé delineata. Anche quando il commissario parla della povera signora Banducci con il parroco don Corpi e apprende da lui che la stessa consultava spesso fattucchiere, cartomanti e ciarlatani vari, il commissario interviene dicendo seriamente, con disinvoltura e in un mezzo primo piano ad hoc, senza alcuna ironia: “Lo so, lo so, ne conosco uno”, senza dire nulla di più in merito, ma l’uso del presente fa propendere per una conoscenza ancora in atto, non quindi dovuta a circostanza casuale non più in atto. E certo non si riferisce in una ironia tattica al prete, che viene dipinto nel film come persona onesta e che aiuta tutti coloro che può aiutare con vero spirito cristiano per le umane debolezze, persona che il commissario rispetta in piena regola, sinceramente a quanto appare – vi è nella presentazione di questa figura una evoluzione più positiva del senso religioso di Germi rispetto a posizioni indossate al riguardo nei film precedenti della Trilogia. La frase del commissario potrebbe anche essere una qualsiasi interlocuzione per avvalorare quanto detto dal sacerdote, ma, visto il mezzo primo piano mentre viene proferita e la presenza e validità dei presagi nel film, può essere una frase significativa, un molto implicito cenno alla credenza del commissario stesso nei presagi, commissario proiezione del regista proiezione dell’uomo. Non basta: quando parla con Remo Banducci poco dopo il riconoscimento del cadavere avvenuto all’obitorio, gli consiglia di non vendere l’appartamento lasciatogli in eredità dalla moglie – così era ovvio ritenere al momento, prima di avere letto il testamento che deciderà diversamente –, in quanto l’omicidio avrebbe deprezzato l’immobile, questo perché la gente “è superstiziosa”, frase pronunciata con una molto particolare enfasi espressiva, adatta ad attirare di nuovo l’attenzione dello spettatore sull’ambito delle credenze, dei presagi. E per altro, è il caso di sottolineare ancora, in tutto il film sono presenti non poche ombre sapienti, che conoscono il futuro come lo prevede l’inconscio o l’intenzionalità inconscia resa visibile proprio attraverso le ombre e la loro elaborazione e tutto ciò depone per l’ipotesi di una possibile credenza di Germi nei presagi, nei presagi non lieti. Tornando alle citate ombre sapienti, un ulteriore esempio tra gli altri possibili è dato dall’ombra di Valdarena, il cugino opportunista di Liliana Banducci il quale, nel film si spaccia per medico senza esserlo – in Gadda è un neolaureato – e non si vergogna dei suoi comportamenti da uomo dappoco, da quasi mantenuto. Quando è seduto al tavolo del suo studio, vediamo come la sua ombra nera si rifletta a metà sui tendaggi, nera non tanto per l’anima del personaggio che è solo un uomo dappoco, che vive di ricatti e di azioni vili – il commissario ad un certo punto si rammarica di non poterlo fra finire in galera non essendoci articoli di legge idonei in tal senso. L’ombra è nera soprattutto affinché nell’occhio dello spettatore abbia evidenza l’ombra e possa venirne recepita la corrispondente semantica. Un’ombra a metà come un uomo a metà al di là del perbenismo ostentato ipocritamente nell’ambiente sociale. Quando Valdarena sta di fronte alla porta di casa Banducci dove a terra troverà il cadavere di sua cugina, la sua ombra nell’inquadratura si proietta molto visibilmente spezzettata sull’uscio secondo le sporgenze dell’ornamentazione lignea dello stesso, ciò di nuovo in corrispondenza della sua personalità non integra, della sua disponibilità a ogni sorta di compromesso, di piegamento senza affatto vergognarsene. Al contrario, quando è il commissario a entrare in casa Banducci, la sua ombra si staglia nera e senza frammentazioni sulla porta, nel suo caso come ombra di un personaggio dalla personalità integra, forte, non disposta a vili compromessi e piegamenti, a vie traverse. Quando apre la medesima porta Diomede per rubare in casa Banducci per esempio, come anticipato, la sua ombra nell’inquadratura, non più grigia come in commissariato, bensì scura e compatta, non segue il gioco delle sporgenze e ornamentazioni della porta, ciò in corrispondenza della sua decisione che richiede comunque fermezza e audacia oltre che, nell’occasione, una personalità nera come nella previsione inconscia più drammatica che a sua insaputa la sua ombra esprime sapientemente.
Non casuale è nel finale l’ombra nera di Assuntina che compare per un paio di secondi – non ce ne sono altre sue di importanti nel film. La donna stira piegandosi sul tavolo nella cucina della sua casupola in un reiterato movimento di abbassamento del busto e di sollevamento successivo per agevolare la stiratura. Qui la sua ombra nera stagliata dietro di lei quasi nascostamente sulla credenza si piega e ripiega come appunto sta facendo la donna e in questa azione la sua ombra appare nella prospettiva e nella strutturazione quasi come riflessa da uno specchio convesso, rimpicciolita come piccola interiormente è Assuntina. L’ombra, priva di tratti identitari, enfatizza il movimento di piegamento come se assentisse ripetutamente con il capo, come se sapesse che Assuntina debba chinare presto il capo davanti ai fatti ormai messi in moto, non solo: quando Assuntina smette di stirare sospettando che la polizia sia venuta a cercare Diomede perché ha sentito rumore di macchine che si sono fermate davanti alla scalinata che porta alla sua casa, il suo sguardo quando gira la testa verso la provenienza del rumore appare in allerta, mentre la sua ombra dietro di lei, priva di sguardo e impersonale, si gira ovviamente anch’essa e per una frazione di secondo l’effetto visivo, per altro piuttosto sinistro, è come se guardasse Assuntina e stesse in fredda attesa di quanto già previsto. Così il profondo inconscio di Assuntina, depositario della verità del personaggio, pare saperne più di lei.
Una doverosa nota qui sugli occhi di Claudia Cardinale nel film. Germi, da regista di rango, è riuscito a fare esprimere in tutto il film dai suoi occhi magnifici lo sguardo fisso e ottuso della donna stolta che mente convinta con cieca presunzione che le sue sciocche e false parole bastino a cambiare la realtà dei fatti, performance in cui i suoi occhi divengono occhi comuni, certo non brutti, ma neanche stupendi, appaiono anche meno lunghi perché sono spesso spalancati e tondeggianti perché sempre in allarme per le sorti di Diomede, per il rischio di perderlo. Quale omaggio, Germi concede agli occhi in realtà straordinari della Cardinale un paio di flash di incomparabile bellezza proprio nel finale. Rovesciata sul letto dopo che l’uomo è stato portato via dalla Squadra Mobile, dove verrà raccolta la sua deposizione che lo porterà al carcere, viene ripresa in un’inquadratura lievemente di sbieco con gli occhi che si intravedono dietro a qualche filo di capelli spettinati, inquadratura dove viene data piena ragione dei suoi occhi lunghi, del suo sguardo malioso al di là dello sguardo ottuso nell’interpretazione che la Cardinale ha eseguito alla perfezione secondo gli ordini del regista scoprendo così la propria profonda disposizione artistica per i ruoli drammatici. In questo omaggio la Cardinale riacquista per un attimo fuggente lo sguardo bellissimo dei suoi occhi come fossero due gemme che si intravedono luminose.
Questo per fare qualche esempio della particolare importanza che Germi ha dato in questo film all’ombra che appare come personaggio vero e proprio anch’essa, spesso in parte postprodotta e resa adatta ad esprimere il significato voluto per essa da Germi, primo fra tutti la sua manifestazione dell’inconscio, dell’anima inconscia dell’uomo, ossia la verità più profonda della personalità dei suoi, per così dire, padroni.
Ma l’ombra semanticamente più interessante delle altre pur anch’esse variamente significative è quella del commissario. Qui Germi raggiunge un ulteriore vertice nell’arte delle ombre. La speciale caratteristica che si ripete relativa all’ombra di Ingravallo è che essa spesso se non sempre appare duplicata, ossia il commissario pare avere con sé due ombre in immagini appositamente messe in rilievo nelle inquadrature. Ombre duplicate per effetto di luci e angoli delle pareti, angolazioni delle riprese stanno normalmente in tutti i film o in molti film, ma le ombre di questo commissario non sono casuali, sono particolarmente rilevanti come semantica ad esse intrinseca.
Vediamone qualche esempio. Quando il commissario entra a casa sua, nella sua camera da letto, è solo, nessuna donna gli fa compagnia con il suo affetto e la sua presenza amorevole. In compenso sulle due pareti ad angolo della stanza si riflette la sua doppia ombra che prende il posto di suoi possibili amici che non ci sono. Le due ombre sono piegate in avanti come il commissario, ma una appare piegata più corta, come stesse cercando qualcosa in basso, distinta dall’altra più lunga e più dritta come se guardasse più in generale l’ambiente, ombre come avessero vita propria, ombre del suo inconscio sempre all’erta che proteggono il commissario perlustrando l’ambiente in qualità di suoi uomini più fidati che il suo inconscio segreto gli mette a disposizione nella sua professione, nella sua vita, una vita solitaria priva di affetti – il commissario ha sì una donna, ma non la vede mai e il suo affetto non gioca un ruolo nel film se non come assenza, addirittura non riconosce la sua voce al telefono e non vuole parlare molto con lei così che essa poi non lo contatta più. Per concludere: a casa sua il commissario ha la compagnia delle sue ombre in luogo di qualsiasi persona in carne ed ossa, ha la compagnia delle ombre per così dire inviate dal suo inconscio con cui pare avere il migliore rapporto. In un ulteriore immagine degna di una fiaba compare alla parete di uno degli uffici della Squadra Mobile la doppia ombra, ripetuta più in alto e più in basso, del braccio destro del commissario con il pollice evidenziato sul resto della mano a stimolazione ripetuta dei suoi agenti verso la porta di uscita affinché qualcuno segua immediatamente Banducci, ordine che il brigadiere Oreste esegue all’istante uscendo di volata dall’ufficio. Così nell’immagine si vedono tre braccia: quella del commissario in carne ed ossa e le due ombre dello stesso braccio – i suoi più veri, personali bracci destri – che ne ripetono il movimento rapido dando il loro silenzioso, ma molto efficace manforte alla sua personalità doppiamente capace di farsi obbedire e anche di corsa perché ha l’appoggio del suo fortissimo inconscio. Le due ombre, messe in evidenza alla parete dietro al commissario, paiono anch’esse avere autonomia dalla mano concreta del commissario, come fossero un suo doppio sé al suo servizio indipendentemente dal suo corpo, suoi magici uomini che interpretano i suoi comandi prima ancora che vengano dati. Così di nuovo in altre occasioni l’ombra del commissario è reduplicata dietro di lui o lateralmente o si annuncia prima che si veda la sua concreta figura, come quando si affaccia all’uscio dell’ufficio della Squadra Mobile dove il maresciallo Saro sta interrogando Diomede per il furto in casa Anzaloni e Assuntina sta mentendo spudoratamente per difenderlo come ha già mentito svergognatamente quando viene interrogata in casa Banducci per lo stesso furto. Allora il commissario, appunto preannunciato dalla sua ombra nera e compatta, temibile come il suo inconscio sapiente, proferisce la frase rilevante per il significato del film: “Ma perché ti ostini a difenderlo?”, ciò cui
Assuntina risponde di nuovo mentendo, volendo spacciare per verità le sue menzogne sapendo di mentire e ritenendo che esse possano essere credute dal commissario che essa nel finale del film accusa insensatamente addirittura di inventarsi che sia stato Diomede ad assassinare la sua padrona, ossia misurando con il suo corto metro: come lei inventa che non sia stato Diomede, così afferma che il commissario si inventi che l’assassino sia Diomede. Il gioco relativo all’ombra del commissario raggiunge un apice quando, a casa di Banducci mentre questo viene da lui interrogato, il commissario si cala il cappello nero sul volto oscurandolo quasi del tutto così che si presenta egli stesso per un mezzo secondo come sua propria ombra, assomigliando sorprendentemente a quelle proiettate sulle pareti prive di tratti identitari, solo quale immagine più incisiva e anche più sinistra delle ombre stesse proprio perché, ossimoricamente, ombra che si presenta in carne ed ossa. Ciò accade furtivamente, per la durata di un rapidissimo flash. La vera personalità del commissario non viene recepita da Banducci che non si accorge propriamente di chi abbia di fronte: il doppio del commissario in incognito quale ombra che lo osserva dal profondo della sua mente senza essere visto e lo scruta nella sua verità nascosta. Per chiarire: il commissario, proprio quando ha intuito che Banducci avesse non solo sporadici incontri di tipo sessuale durante i suoi viaggi visto che non aveva più ormai da diversi anni relazioni sessuali con la moglie dopo il secondo aborto, ma avesse anche una vera e propria amante stabile, mostra per un attimo la sua vera identità che è quella dell’ombra che osserva non recepita dagli altri la realtà delle persone attorno a lui, come se Germi abbia voluto evidenziare in questo film che non sia solo o non tanto la persona in carne ed ossa ad avere il maggiore peso in quanto può mentire e dissimulare, ma sia anche e soprattutto l’ombra, il sé più nascosto, più profondo e più veritiero, il custode e l’interprete della verità della persona, delle sue intenzioni più veraci. Per altro è grazie a questo sé inconscio e sapiente che il commissario riuscirà poi a capire chi sia il colpevole – guardando la chiave di casa Banducci nel finale, il commissario, come anticipato, si accorge di avere avuto in mano un doppione e pare che nel film la presenza del doppio invada ogni campo, non solo il mondo delle ombre, ma anche, detto per assurdo, la realtà della chiave di hitchcockiana eco. Anche in un’altra occasione, nell’ufficio del comando dei carabinieri, il cappello del commissario scende a oscurare il volto e di nuovo si fa avanti per un rapido flash l’immagine della sua ombra personificata, ciò in un effetto illusionistico sempre piuttosto sinistro dovuto alla sorpresa della presenza improvvisa di un’ombra personificata, ciò che porta dal rassicurante ambito del quotidiano in un ambito non familiare, non conosciuto, nell’ambito silente, più nascosto e oscuro della personalità che per questo aspetto è pertanto spaventoso. Ma anche altre volte il capo del commissario rientra come dentro se stesso piegandosi appositamente verso il basso così che il cappello nero in qualche misura oscuri il volto e di nuovo si abbia qualche lampo della sua figura umbratile: l’inconscio del commissario che indaga tutto quanto lo attornia ad insaputa del prossimo ignaro della sua vera natura di persecutore inflessibile del crimine, natura che il commissario dissimula spesso sotto un’apparenza di persona bonaria, non temibile – in questo un po’ similmente all’Ingravallo di Gadda, che nasconde sotto l’apparenza assonnata un’attenzione al contrario sempre vigile, appunto per non mettere in guardia il prossimo nei suoi confronti.
Inconscio che emerge nel commissario a insaputa degli altri e anche a insaputa o semi insaputa di se stesso, come un gioco di rivelazione dell’inconscio, gioco espresso iconicamente da Germi in un vero capolavoro con le ombre, come se l’inconscio del commissario gli prendesse la mano affacciandosi dall’oscurità senza che il commissario quasi se ne avvedesse. A questo punto risulta più chiaro anche il motivo per cui il commissario porti quasi sempre il cappello nero e spesso anche gli occhiali scuri a copertura degli occhi, dello sguardo, cappello e occhiali che sono gli immancabili strumenti di un mascheramento che nasconda l’identità delle persone, un po’ come le ombre nascondono i tratti identitari, la vera natura del commissario che in realtà non ha pietà di nessuno nelle sue indagini e nel suo giudizio sulla disonestà, sulla menzogna, sull’ipocrisia. Ricapitolando: è già stato sottolineato come le ombre del commissario siano i fedelissimi del suo inconscio con cui intrattiene un rapporto privilegiato ad insaputa dei suoi agenti e del prossimo – salvo quando non resiste alla tentazione, inconscia, di presentarsi qui e là per un rapidissimo flash come ombra egli stesso, mostrando chi stia dietro la sua figura in carne ed ossa, sdoppiato con il suo sé più nascosto, meno percepito e per questo sinistro e temibile, come in agguato su una umanità variamente corrotta e negativa fino anche alla perpetrazione di un omicidio. Le sue ombre come la sua mente senza corpo, ombre e mente che in quanto immateriali si associano, come nelle antiche e magiche tradizioni popolari, a un metaforico spirito invincibile che trapassi i corpi, quasi potendo andare ovunque superando l’ostacolo della materia. Parallelamente per contrasto, nessuno dei suoi agenti capisce qualcosa relativamente ai colpevoli delle due azioni criminose, il furto in casa Anzaloni e l’omicidio in casa Banducci e si può constatare come essi abbiano spesso se non sempre ombre non incisive, spesso sfumate, non pregnanti, ossia non possano contare sul loro inconscio più che per qualche dettaglio non troppo rilevante essendo persone di tutta superficie, capaci solo di eseguire ordini.
C’è un’altra ombra doppia che permane per un quasi invisibile flash, quella del brigadiere dei carabinieri Walter Tomea, veneto, personaggio per altro simpaticissimo che fornisce il nome del ladro di gioielli in Casa Anzaloni, Enea Retalli, l’uomo di Camilla Mattonari, donna “un po’ schedata” come la definisce Saro. È in ogni caso, malgrado la tradizionale presentazione dei carabinieri come non troppo svegli e perspicaci che viene ridata con finissimo humour anche nel film – per altro ricco di spunti di una comicità sottile e irresistibile –, l’unico collaboratore intelligente: dà informazioni utili, frutto di ricerca e di ragionamento sugli eventi e sulle persone, può meritare la visibilità, anche se solo meno che momentanea, della sua ombra, del suo sé inconscio, sdoppiato in parte all’ingresso dell’osteria dove in una inquadratura a lui dedicata appare in pieno assetto professionale, nella divisa nera dei carabinieri che intimidisce i proprietari dell’osteria, persone della piccola delinquenza, della prostituzione. La doppia ombra non è casuale: in un film imperniato sulle ombre e sulle ombre doppie del commissario, non poteva sfuggire la presenza anche naturale di una ulteriore ombra doppia di un altro personaggio, se non fosse stata accettata dal regista, doppio che sarebbe stato cancellato se non fosse stato voluto da Germi. Accanto al tema delle ombre, sta il tema preannunciato della donna, anzi di un tipo di donna di cui c’è qualche anticipazione nel film L’uomo di paglia (Mascialino 2020: Lunigiana Dantesca n. 164).
Negli altri due film della Trilogia l’interpretazione dell’amore e del senso materno della donna sono un motivo di centrale importanza esemplificato attraverso la presenza di donne sia negative nella gestione degli affetti, sia positive, capaci di salvare l’unione familiare e di tenere coeso il gruppo con l’affetto – non con la passione sessuale adatta a distruggere, non a costruire. Per dare qualche breve riferimento: nel Ferroviere la moglie e madre, Sara, riusciva a riportare tutti i membri della sua famiglia sulla retta via per così dire; nell’Uomo di paglia Luisa, di nuovo la moglie e la madre, riusciva a salvare almeno in parte l’unione familiare compromessa dal marito appunto uomo di paglia, mentre la donna irrimediabilmente negativa e dai nervi fragili era la giovane Rita, passionale, incapace di essere per così dire moderna e incapace anche di essere tradizionalmente impostata. In Un Maledetto imbroglio Germi sferra un affondo senza pari contro il tipo di donna impersonata dalla protagonista Assuntina. Significativa al proposito è la più sopra citata colonna sonora principale del film che Germi ha curato in prima persona facendone la sintesi del messaggio del film. Il titolo Sinnò me moro, Se no muoio, esplicita il tipo di amore che la protagonista offre all’uomo: irragionevolmente senza quartiere. Germi, a supporto della sua tesi riguardo all’attaccamento femminile all’uomo con cui c’è stato un rapporto sessuale – ben diversamente dall’uomo che non sviluppa nel film il medesimo attaccamento che spinge talora la donna a diventare ossessivamente possessiva – presenta anche altre donne che interpretano l’amore come un attaccamento irrazionale e senza rimedio. La vecchia, percossa per l’ennesima volta dal marito, non vorrebbe poi che lo arrestassero e dice che in fondo non le ha fatto male. La povera donna in preda al proprio patetico attaccamento per l’uomo sorto sul piano fisico, dell’innamoramento e del rapporto sessuale, ormai ridotto ad un meccanismo che continua a essere solo in quanto instauratosi profondamente e acriticamente nel cervello proprio attraverso il rapporto sessuale, si è recata alla Squadra Mobile per implorare tutti i poliziotti che incrocia, anche il commissario, di non fare andare in galera il suo uomo – che presumibilmente le ha spaccato i denti a furia di percosse nelle varie occasioni – e questo non tanto per paura della sua reazione, ma per incapacità di stargli lontana, così che si è auto convinta che in fondo l’uomo sia addirittura buono, una donna cui anche le botte sono accettabili se non quasi gradite non essendo essa in grado di stare lontano fisicamente dall’uomo, di fatto la vecchia con i denti rotti verosimilmente da lui non vorrebbe che andasse in carcere, dove non le potrebbe più stare sempre vicino, magari picchiandola selvaggiamente, ma vicino fisicamente comunque. Virginia stessa, la bella fanciulla sedotta dall’attempato Banducci, non vuole separarsi da lui non solo per l’interesse materiale pure esistente, ma perché il rapporto sessuale con l’uomo l’ha legata molto fortemente a lui. Al momento di essere abbandonata dall’uomo minaccia di ammazzare tutti: moglie di Banducci, Banducci stesso e anche se stessa. Questo non accade per affetto, bensì per il tipo di attaccamento che ha ingenerato in lei la relazione sessuale con l’uomo, una relazione che ha creato dipendenza. Liliana Banducci appare diversa dalle altre donne citate, disereda il marito che la tradisce, ossia ha una reazione razionale al tradimento, tuttavia neppure lei si separa dal marito, in altri termini: pur diseredandolo, resta a convivere con lui, lo tiene vicino. Ricapitolando quindi, non solo Assuntina, ma anche Virginia e addirittura la povera vecchia incarnano il tipo di donna che non capisce più niente nel suo legame con l’uomo con cui ha avuto o ha un rapporto sessuale, anche se quest’uomo la tradisce, la maltratta e la stessa Liliana, pur non perdendo l’equilibrio e mantenendo la propria razionalità, non se ne stacca, probabilmente per motivi religiosi, che però non escludono una forma di attaccamento simile anche in essa. Di fatto Germi avrebbe potuto fare in modo che la Banducci lo mandasse via pur senza separarsene legalmente tenendo in piedi l’indissolubilità del matrimonio secondo i dettami religiosi, ma appunto Germi la fa rimanere accanto a un tale uomo, a convivere nella medesima casa con lui. Significative sono le inquadrature che all’inizio del film mostrano la signora in un mezzo primo piano strettamente unita ad Assuntina, ad un certo punto le tiene anche la mano come a proteggerla. In quell’occasione la Banducci dichiara di garantire lei
stessa per Assuntina riguardo al furto in Casa Anzaloni, come in un senso materno grazie al quale la Banducci si inventa per Assuntina una garanzia morale che non può dare su nessuna base concreta e che dà solo all’interno della sua interpretazione distorta del senso materno frustrato dalla mancanza di figli, ciò su cui torneremo fra poco, una garanzia data acriticamente ed erroneamente. Poco dopo Assuntina, vedendo Diomede circondato dai poliziotti, corre verso di lui e lo abbraccia stretto come per proteggerlo gridando che lui non c’entra per niente nel furto perché lo dice lei, non lo lascia neanche parlare per discolparsi eventualmente, parla e decide per lui che è come interdetto dal dire e dall’agire dal suo cosiddetto amore. La cosa fortemente indisponente in questa donna è che essa crede che i poliziotti prestino fede a quello che essa va dicendo in preda al suo attaccamento folle, senza prove di quanto dice, solo in base alle menzogne che inventa lì per lì per scagionare eventualmente Diomede. Assuntina e la Banducci vicinissime nell’inquadratura, Assuntina e Diomede vicinissimi nell’inquadratura: due donne per qualche aspetto in parte simili, specificamente nel fatto che, grazie al loro amore o attaccamento irrazionale, vorrebbero decidere per coloro che così amano – la Banducci non capisce chi sia Assuntina e neanche Diomede giudicando solo con la sua affettività, quindi sbagliando il giudizio. La citata canzone Sinnò me moro parla appunto di questo tipo di amore, di attaccamento e dice esplicitamente che la donna in caso di separazione dall’uomo morirebbe, ciò con cui viene confermata la patologica degenerazione della passione in un tipo di donna scarsamente intelligente, passione, ribadendo, di natura sessuale, non affettiva, come lo sono tutte le passioni: erotiche per eccellenza, l’affetto modera la passione o la fa addirittura cessare. L’amore sessuale della donna dunque, nel film, viene presentato nel suo lato negativo di attaccamento esagerato fino alla perdita della dignità e della ragione. In questo film i maschi nei personaggi di Banducci, Valdarena, Diomede certo sono infedeli, ma appaiono più equilibrati nelle faccende amorose. Remo Banducci, che non sente più alcun trasporto erotico per la moglie, ha della tenera amicizia o affetto per lei. Anche Diomede, che pure perde il controllo durante il furto e uccide la signora, vorrebbe togliersi Assuntina di dosso e non lo fa anche perché gli fa pena, non certo per passione che non nutre o non nutre più per lei. Quanto ad Assuntina, per chiarire: Germi ha rappresentato in lei molto realisticamente la donna ottusa che mente sempre non per il suo affetto, ma per il suo attaccamento insensato all’uomo, tale che non se ne sa separare, neanche la confessione che Diomede le fa prima del matrimonio riguardo all’omicidio da lui commesso la dissuade e anzi, quando nella casupola crede di poter uscire per andare ad avvertire Diomede affinché possa fuggire, passa in tutta fretta davanti all’altarino di Sant’Antonio nella sua stanza e si fa il segno della croce, verosimilmente per chiedergli di aiutarla a far fuggire l’assassino – così come Virginia fa una novena in chiesa alla Madonna perché le faccia la grazia di far morire la moglie di Banducci e avere così via libera con l’uomo. Anche il sentimento religioso viene deformato a misura dell’orizzonte mentale in tali donne, Assuntina e Virginia, tra le quali Assuntina è la più ossessiva – Virginia è dotata comunque di maggiore realismo nei confronti di Banducci. Ottima davvero è la performance da parte della Cardinale nella parte di Assuntina quando nella sua casupola nega sfrontatamente davanti al commissario che il colpevole sia Diomede e dice al commissario che si sta inventando tutto e che il commissario non riuscirà mai a dimostrare la colpevolezza di Diomede. Nel dire queste insensatezze parla così in fretta che neppure si capisce quello che dice ed è così odiosa nel suo fanatismo che il commissario si spazientisce e le mette le mani addosso, non picchiandola
come si deduce che vorrebbe, ma comunque afferrandole le mascelle violentemente per chiuderle la bocca e farla stare zitta, così che smetta di dire falsità come una macchinetta e di credere con la sua stolta difesa del suo uomo di poter avere ragione degli esiti dell’indagine del commissario. Quando subito dopo si affaccia alla porta Diomede ignaro di trovare la polizia in casa, Assuntina gli grida di scappare e trattiene per la giacca il commissario credendo così di poterlo fermare, di riuscire a non fare arrestare Diomede, tutto ciò in un massimo di ottundimento mentale che Germi ha saputo rappresentare impeccabilmente attraverso l’interpretazione altrettanto impeccabile della Cardinale. Anche in occasione del sospetto del commissario verso Diomede per il furto in Casa Anzaloni, Assuntina lo tira per la giacca gridando che non è stato Diomede a commettere il furto, lo giura essa stessa e aggiunge che può giurarlo anche Diomede stesso, quasi avesse valore solo quello che dice lei non si sa in base a che cosa se non in base alla sua ottusa presunzione e Diomede potesse solo confermare quanto essa dice. Non solo: quando la macchina del commissario porta via Diomede, Assuntina rincorre la macchina stessa urlando il nome di Diomede e dicendo ai poliziotti di fermarsi: “Fermateve!”, ancora non avendo nessun riconoscimento per l’autorità della polizia e credendo, ancora, di poter dare ordini alla polizia, di poter essere obbedita e scagionare così Diomede che ha confessato il delitto, ossia senza tenere conto della realtà dei fatti.
Il paragone con la corsa di Pina, interpretata da una splendida Anna Magnani, nel film Roma città aperta di Rossellini (1945) dietro a Francesco, il futuro marito, arrestato dai tedeschi, che lo trascinano a viva forza sul camion mentre la chiama disperatamente, regge solo in tutta superficie, non nella sostanza: durante la Resistenza la donna, in una scena altamente drammatica, insegue il camion dopo una lotta estrema contro i tedeschi che la vogliono fermare senza riuscirci tanto è grande il sentimento d'amore e di giustizia della donna. Per altro, anche nella ripresa della corsa movimentata di Pina non ci sono uguaglianze vere e proprie con la corsa di Assuntina. Pina viene ripresa nella corsa dapprima dal retro in un controluce che dura circa sei secondi, successivamente in modo frontale per tre secondi circa, poi per per un paio di secondi in luce diretta di profilo e per un paio di ulteriori secondi frontalmente mentre sta per essere uccisa e viene uccisa cadendo al suolo. Ma a parte queste stesse differenze che già di per sé sconsiglierebbero un paragone non approfondito con la corsa di Assuntina e relativo alla sola presenza di una corsa in aiuto dell'amato arrestato, in ogni caso Pina corre dietro al futuro marito rinchiuso nel camion nel vano tentativo di non abbandonarlo alla sua sorte di deportato in Germania e di aiutarlo in un impeto del sentimento. Diversamente nella corsa frontale di Assuntina che insegue la macchina della polizia dando l'ordine di fermarsi usa appunto l'imperativo nella pretesa assurda di far liberare un assassino reo confesso e consapevole della giusta punizione, corsa durante la quale nessuno la uccide e non vi è la morte di nessuno. Questo tipo di paragoni superficiali evoca il giudizio di Richard Wagner relativo ai critici che esaurivano la loro critica prendendo in considerazione solo particolari insignificanti e di tutta superficie, in quanto non capaci di comprendere il significato delle opere che pure credevano di trattare nelle loro analisi, significato che prescindeva dai particolari irrilevanti da essi osservati. Una satira oltremodo corrosiva di Wagner che rade al suolo tale tipo di critici è espressa tra l'altro nell'opera I Maestri Cantori di Norimberga nella figura dello scrivano comunale Sixtus Beckmesser quale critico incapace di capire il significato delle opere stesse e tutto preso a marcare errori eventuali e comparazioni inutili ed errate. Anche Fritz Lang (Mascialino 2018: Lunigiana Dantesca n. 143), per rientrare nell'ambito della critica cinematografica, era contrario e anche avverso a un tale genere di critici che non sapevano estrarre il significato profondo dei suoi film.
È il caso di ricordare che il film non rappresenta una storia di sangue e passione i quali non sono collegati in nessun modo nella vicenda: l’omicidio viene commesso in occasione di un furto, non è un delitto passionale e la passione di Assuntina per Diomede non scatena nessun atto cruento, solo mette in evidenza la estesa immoralità della stessa, la sua capacità di mentire sconsideratamente, la sua scarsa disposizione al rispetto delle regole sociali, delle gerarchie, la sua mancanza di dignità qualsiasi. Quando parla con la Banducci riferendosi al commissario e ai poliziotti che secondo lei osano interrogarla sul suo Diomede, parla di essi come di “questi”, chiede due volte alla Banducci che cosa vogliano “questi”: “Ma che vonno questi?” con tono arrogante, essendo incapace di avere anche un minimo senso sociale ed essendo capace solo di mentire, nonché poi anche di vivere con l’assassino della sua benefattrice, basta non separarsi da lui.
Una parola sulla Banducci di Germi e sulla Balducci di Gadda, personaggi molto diversi nei due autori. In Gadda vi è nel rapporto tra Virginia, non Assuntina, e la Balducci la possibilità di una certa attrazione omosessuale, per altro non proprio tanto lieve per quanto sta scritto nel romanzo (Gadda 1957/2008: 124-125). Nel film di Germi non vi è nulla di tutto ciò e si può vedere come Germi nobiliti tale personaggio femminile che ha sì un senso materno un po’ esagerato, da mamma chioccia per così dire, ma che resta tuttavia nei limiti del comprensibile e non è dannoso. Si tratta di una figura di donna che si situa nell’ambito del positivo: è fedele, aiuta le giovani che non sono ricche come lei a formarsi una famiglia, quella che essa non ha potuto avere, si accontenta del suo ruolo di moglie e di madre sfortunata, reagisce al tradimento del marito non facendo altro che diseredarlo a favore soprattutto di un Istituto di Suore di Maria Bambina, ma tutto finisce lì. La signora Balducci in Gadda è donna del tutto schiava del suo senso materno andato fuori dai ranghi, come se tutta la sua personalità si riducesse a pensare ai figli che non ha avuto e che vorrebbe avere in qualche modo. Gadda, piuttosto o anche forse del tutto misogino nel romanzo, descrive le donne, compresa la Balducci, in sintonia con quanto aveva scritto Cesare Lombroso (Frigessi a cura di, in Cesare Lombroso Scritti scelti, 2000: 603-631). La donna presa in generale nel romanzo di Gadda è una donna priva di facoltà raziocinante avendo il cervello “centrogravitato sugli ovarii” (Gadda, op. cit.: 94) e incapace di pensare razionalmente e fare alcunché di sensato, tranne che appoggiarsi all’uomo o imitarlo per il possibile. Addirittura la Balducci pensa di farsi dare in adozione da Valdarena il suo primo figlio, ciò che è disposta a pagare in denaro e gioielli. Germi, come accennato, presenta una Banducci diversa, sensibile, capace di prendere iniziative, signorile, per nulla attratta omosessualmente dalle sue giovani donne di servizio – nella visita del commissario in casa sua si sente attratta da un uomo come lui. Certo è rammaricata di non avere avuto figli, ma non è esageratamente fissata sull’argomento. In questo film dunque Germi salva la donna che ha un istinto materno che si mantiene nella norma. E per altro il commissario ha una evidente simpatia per la Banducci, riconoscendone non solo la bellezza e l’eleganza del tratto, ma anche il buon carattere, onesto e limpido, non affatto collegato a quanto dicono della donna Lombroso e Gadda all’unisono, evoluzionisti in questo frangente, anzi essendo in contrasto sulla rappresentanza del femminile in generale in Lombroso e Gadda – Germi smaschera solo un tipo di donna, non la donna in generale.
Riguardo all’ottusità del tipo di donna rappresentato da Assuntina vi è, oggettivamente riscontrabile, una forte assonanza di Germi con l’opinione di Cesare Lombroso sull’immoralità della donna in quanto poco razionale. Lombroso giudica in tal guisa tutte le donne che sarebbero sempre immorali perché nulla intendono, madre compresa, Germi giudica solo il caso particolare della donna ottusa che in quanto tale è tuttavia anche immorale, collegandosi in ciò a Gadda. Assuntina rappresenta la degenerazione dell’istinto materno e anche dell’attrazione sessuale femminile con perdita del senso morale, ciò che accade proprio perché poco capisce ed è solo preda dei propri istinti, materni e sessuali. Assuntina è dunque una povera donna alla Cesare Lombroso, negativa socialmente e individualmente. Il commissario, dopo la confessione di Diomede, ha un mezzo cenno di compassione per il povero disgraziato che è sinceramente pentito del crimine che ha commesso non per vera malvagità, ma perché ha perduto il controllo per il timore di essere denunciato. Quando questi dice al commissario di aver rivelato ad Assuntina di avere ucciso la signora Banducci, il commissario gli chiede se glielo abbia detto prima o dopo il matrimonio e apprende che glielo ha detto prima di sposarsi. Allora, alla dichiarazione di Diomede di averglielo detto prima perché voleva lasciarla non volendola più anche se l’aveva messa incinta, il commissario non gli dice niente di riprovevole per questo anche se certamente non lo apprezza, né lo guarda con particolare disprezzo, esprime invece il suo totale disprezzo per Assuntina per il fatto che lo abbia sposato lo stesso, pur sapendo la verità. E per finire, quando i suoi agenti portano via l’uomo, il commissario, prima di andarsene, guarda Assuntina senza dire una parola, ma solo accomiatandosi con uno sguardo di totale riprovazione, senza pietà per lei, per la donna che invece di portare eventualmente l’uomo sulla retta via, difende un assassino, donna che non è stata capace di evitare che il suo uomo commettesse il delitto e comunque rubasse, donna che il commissario non
arresta perché ha pietà del suo stato di gravidanza, non di lei, e per il fatto che glielo chiede Diomede in quanto la donna, giura Diomede dicendo la verità, non ne sapeva niente della sua intenzione di rubare in Casa Banducci – ma sapeva ormai che Diomede era l’assassino.
Diomede, il ladro e omicida, non mente nel film, in questo migliore di Assuntina. Dice la verità nelle due occasioni del furto in Casa Anzaloni e della tragedia in Casa Banducci, non mente spudoratamente come Assuntina e per questo non venendo del tutto disprezzato dal commissario come invece avviene per Assuntina. A Diomede, alla fine, dispiace dover lasciare sola Assuntina, la futura madre di suo figlio, ma tuttavia si evidenzia nel film e anche nel finale come non ne sopporti l’asfissiante e ossessivo attaccamento che la lega a lui non aiutandolo né lasciandolo vivere liberamente visto che lui se ne sarebbe voluto andare perché non più interessato a lei o non sopportandola. Per altro il cosiddetto amore di Assuntina per l’uomo non è, come accennato, il tipo di amore della donna che sostiene quattro e anche cinque cantoni e ricompone gli eventuali errori anche gravi dei membri del suo gruppo familiare secondo canoni di onestà e di giustizia. Nel film non ha molto spazio neanche l’attesa di un figlio da parte di Assuntina, tanto che sembra quasi che essa adoperi tale stato in primo luogo per tenere legato a sé Diomede. Ribadendo, il suo amore per Diomede non impedisce all’uomo di rubare e di uccidere, essa solo lo difende acriticamente per non doversene separare e lo tiene vicino senza che lui sconti la sua pena, che paghi per il delitto tanto atroce. Certo, gli dice che sconteranno assieme per tutta la vita, ma una cosa è scontare il crimine pagando il debito con la società attraverso la pena del carcere eventualmente a vita o per quasi tutta la vita, altra è vivere assieme liberamente, godendo comunque delle gioie familiari ed esistenziali quali che siano. Nel caso di una donna come Assuntina l’affettività risulta soprattutto, anche se non solo e non del tutto, un alibi per dare una giustificazione all’attaccamento patologico per l’uomo, attaccamento, va ribadito ancora, di natura sessuale come lo è l’innamoramento e come lo è la passione che è un aumentativo dell’innamoramento – non per niente vale il detto popolare che l’amore accechi, amore in tale senso, non l’affetto – e comunque questo è quanto risulta dal messaggio centrale del film.
Diversa dall’ossessiva Assuntina è ad esempio Camilla – che, come accennato, risulta un po’ “schedata” nelle parole del maresciallo Saro –, la quale, nel film, in qualità di donna di facili costumi non sviluppa nessun attaccamento patologico con nessuno e ride della sorella innamorata del suo uomo. L’ambito della prostituzione e dei facili costumi risulta anche in questo film, come in quello precedente L’uomo di paglia, affine come mentalità a quello maschile, nel senso che le donne di questo tipo non sono afflitte dallo sviluppo di attaccamenti patologici, così come gli uomini in questo film si staccano dalle loro donne senza tragedie – stiamo sempre valutando il messaggio oggettivo del film, quanto Germi ha oggettivamente voluto esprimere in esso.
Molto ci sarebbe ancora da dire su questo complesso e interessantissimo oltre che bellissimo film, di cui questa analisi ha messo in evidenza i punti di sintesi più rilevanti per i messaggi stanti alla base dell’opera di Pietro Germi.
Per finire, una parola sul titolo. Potrebbe sembrare che imbroglio significhi truffa, inganno, come di fatto significa normalmente in italiano. In realtà è l’esatta trasposizione semantica di pasticcio nel senso di gnommero e groviglio come in Gadda. Imbroglio, nell’uso linguistico specialmente dell’italiano settentrionale, significa anche comunemente appunto qualcosa di confuso, un groviglio che debba essere messo in ordine ed è esattamente quanto fa il commissario nella sua indagine finalizzata a sbrogliare le carte per così dire, sbrogliare la matassa, il groviglio – Pietro Germi era settentrionale, genovese. Tuttavia imbroglio in aggiunta assomma in sé anche il significato di truffa, inganno come quello di Assuntina, la mentitrice, significato che pasticcio non ha, termine questo più adatto al messaggio contenuto nel romanzo di Gadda, così come imbroglio nelle due accezioni risulta più adatto al film di Pietro Germi.