QUADERNI DEL 'SECONDO UMANESIMO ITALIANO ®' Cinema: Analisi semantiche di Critica Cinematografica a cura di Rita Mascialino
“Pietro Germi: ‘Un maledetto imbroglio (1959)”
di Rita Mascialino
Un maledetto imbroglio (1959), ultimo dei tre film è un film in bianco e nero di Pietro Germi (Genova 1914 – Roma 1974), sceneggiatura di Pietro Germi in collaborazione con Ennio De Concini e Alfredo Giannetti, interpretato nella figura del commissario da Pietro Germi, canzone dei titoli di testa e di coda scritta da Pietro Germi in collaborazione con Carlo Rustichelli, performata dalla voce purissima di Alida Chelli. Il DVD restaurato da Cinema Forever del Gruppo Mediaset è la versione di cui si è servita la presente analisi semantica. Si tratta del primo film poliziesco italiano, genere filmico inaugurato da Pietro Germi.
Spunto per il film fu il romanzo di Carlo Emilio Gadda (Milano 1893 – Roma 1973) Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1946/1957) – l’undicennio non riguarda il tempo impiegato per scrivere il romanzo, bensì le diverse edizioni del romanzo sempre incompiuto e di volta in volta rimaneggiato da Gadda e collaboratori. Il romanzo cosiddetto giallo dà un quadro relativo alla rappresentazione di una varia umanità della Roma dell’epoca fascista. Il film di Germi è stato criticato negativamente da non pochi critici che lo hanno ritenuto di gran lunga inferiore al romanzo. Mi è d’uopo spendere qualche parola sul romanzo per presentare la posizione di Germi, che confessò che del romanzo di Gadda non era rimasto quasi niente, ciò che risulta vero. Premetto che non ritengo affatto il film meritevole di alcuna stroncatura, anzi: si tratta di un film che, attraverso l’indagine poliziesca, mette profondamente in evidenza l’ipocrisia di vari rappresentanti del tessuto sociale borghese e non solo borghese, questo tra gli altri pregi. Una parola dunque sul titolo definitivo del romanzo che giunse dopo diversi titoli: a mio giudizio ci sono possibilità, fondate oggettivamente su basilari meccanismi psicologici, che Gadda si riferisse con il ”pasticciaccio brutto” propriamente, in un momento di proiezione inconscia, al suo stesso romanzo rimasto per sempre un ingarbugliato pasticciaccio dal quale Gadda non seppe più uscire in tutta la sua vita lasciandolo senza né capo né coda naufragati entrambi tra innumerevoli dettagli affastellati e confuse ripetizioni, pettegolezzi in frammentata continuazione per gli amatori della chiacchiera, il tutto non concatenato neanche in una parvenza di indagine e quindi disperso nel pieno disordine. Sul dato di fatto che malgrado le varie pubblicazioni il romanzo sia rimasto sempre incompiuto, senza che si sapesse minimamente chi fosse l’assassino o l’assassina, c’è il giudizio di Gadda che potrebbe tagliare la testa al toro: “Il poliziotto capisce chi è l’assassino e questo basta” (in Adelphi 2018: nota 33, 369). E mi permetto di aggiungere anche il mio giudizio, non conformistico: a prescindere dalle invenzioni esegetiche, magnifiche e interessanti, ma pur sempre libere invenzioni non basate sull’analisi semantica del testo, Gadda molto semplicemente non era capace di concatenare le azioni in un’indagine, ossia non sapeva ideare un’indagine, un poliziesco come in tutta buona fede avrebbe desiderato, né innovò il genere Giallo Giallo, che di tutto può mancare, anche della conclusione con l’esplicitazione del colpevole, ma non dell’indagine che in Gadda manca. Per quanto attiene alla sopra citata riduzione libera, sembra che Germi si spazientisse e non riuscisse a leggere per intero il romanzo di Gadda – oggettivamente farraginoso nell’impostazione e nebuloso nella conduzione che accumula dettagli su dettagli minuti ripetuti in vario modo e per altro inutili all’indagine che appunto difetta, cosa comunque grave in un poliziesco, questo, ribadendo, totalmente a prescindere dalla mancanza dell’individuazione di un colpevole. L'opera letteraria ha funto per Germi quindi, per fortuna, solo da spunto per qualche particolare non molto importante per il suo film poliziesco – ricordiamo: primo film del genere poliziesco inaugurato in Italia da Germi – basato, come è nella qualità intramontabile e dignitosa del genere, su un’indagine che si realizza concatenando le varie azioni e fornendo una panoramica eccellente dei vari livelli sociali in cui si svolge la vicenda delittuosa. L’arrangiamento si limita pertanto all’ambientazione nella città di Roma, per altro variata anch’essa, ad esempio non Via Merulana, ma, motivatamente come vedremo, Piazza Farnese, e in qualche cenno qui e là, spesso rielaborato anch’esso diversamente. Inoltre, quello che conta nel film di Germi, oltre a tutte le modifiche necessarie nella trasformazione intersemiotica dal genere letterario a quello cinematografico, è un tema profondo, diverso da quello inerente all’evento poliziesco e diverso sostanzialmente da quanto presente nel romanzo, una tematica che si può definire esclusivamente germiana e di orizzonte più universale, che sviluppa un argomento rilevante relativamente a un certo tipo di donna. In altri termini: se Gadda presenta in generale tutte le donne più o meno negativamente e in armonia con la denigrazione – tra l’altro proprio della figura materna – attuata da Cesare Lombroso, come tra l’altro nel Capitolo 4 del romanzo, Germi non infierisce sulle donne in generale, ma solo presenta soprattutto una caratteristica femminile in negativo, rappresentata in Assuntina, come vedremo. Tornando al romanzo come più sopra, può essere che secondo Gadda, ossessionato dall’indagine mancante, basti che sia il poliziotto a sapere chi sia il colpevole – senza aver fatto alcuna indagine che si possa definire tale –, può darsi appunto, ma ciò che è sicuro, è non solo che nessun altro capisca o indovini chi sia o chi possa essere il colpevole, bensì che non ne sappia niente Gadda in primis. Per altro Gadda aveva promesso alla Casa Editrice Garzanti di scrivere e pubblicare un secondo volume del romanzo dove ci sarebbe stato il finale con l’identificazione dell’assassino, ma non fece mai questo secondo volume. Per concludere: credo che si parli del romanzo di Gadda soprattutto proprio grazie al film di Pietro Germi e per l’antifascismo di Gadda, iscritto al Partito Fascista dal 1921 quale convinto fascista e divenuto antifascista dopo la caduta di Mussolini nel 1943, da lui fino a quel momento elogiato per il suo operato.
Questo, ribadendo, come brevissima premessa sul romanzo, doverosa sia perché appunto Germi si è riferito al romanzo in questione, sia perché il film, come anticipato, è stato detratto, secondo il mio giudizio, ingiustamente nel confronto con il “pasticciaccio” gaddiano.
Diamo qui un cenno di esempio di un paio di molto semplici, ma non del tutto irrilevanti, trasformazioni dal romanzo al film.
L’Ingravallo di Gadda è un personaggio lento, apparentemente assonnato – lo sarà comunque nel film il maresciallo Saro che sarà spesso assonnato fino ad addormentarsi più volte durante l’indagine –, presentato sempre con la sigaretta spenta a penzoloni dalle labbra, un uomo non affatto elegante, soprattutto non particolarmente amante della pulizia personale, tra l’altro, al proposito, la cagnetta pechinese di casa Balducci, gli annusa a lungo le scarpe (Gadda 1957/2007, 6), un commissario di polizia sporco e trasandato, con vestiti che mostrano macchie. Un ulteriore cenno: il cognome Balducci, da baldo, dall’aggettivo tedesco bald, ardito, audace, coraggioso, evoca un maschio che dovrebbe o vorrebbe essere appunto baldo, audace e coraggioso, un balduccio tuttavia che lo è in piccolo, un piccolo audace, piccoli coraggiosi, con irrisione implicita per i fascisti, così che il vezzeggiativo funge ironicamente da tropo dell’ironia.
L’Ingravallo di Germi è, checché se ne voglia dire, un’indimenticabile figura di magnifico commissario di polizia interpretato in modo insuperabile da Pietro Germi, assai dinamico, mai assonnato, con il sigaro in accensione o in bocca o fra le dita, comunque sempre acceso, sempre in uso – lasciando qui stare gli evidenti significati simbolici a ciò collegati –, un uomo elegante, amante della pulizia personale. Accanto all’aspetto impeccabile, agli abiti senza macchie, ordinati e lustri, si lava le mani in ufficio durante le indagini. Le mani pulite in particolare hanno, così evidenziate nel contesto, un senso metaforico di onestà, di pulizia morale, un uomo e un poliziotto di cui si può avere fiducia. Azione, quella del curare la pulizia personale, concretamente e metaforicamente, ricorrente nei tre film: nel protagonista operaio del Ferroviere, come segno della sua totale onestà, e anche nell’Uomo di paglia sebbene in quest’ultimo con una semantica relativa anche al desiderio di lavarsi via la colpa del tradimento della moglie e dell’amante, come quando si lava il viso alla fontana sotto casa temendo che la moglie sia ritornata a casa dalla vacanza dai parenti – vedi analisi specifica per i dettagli ulteriori. Nel film il cognome Balducci diviene Banducci, con cambio della consonante. I due cognomi si riferiscono entrambi ai fascisti, ma con intensità diversa. Il brigadiere Oreste esprime la sua opinione su Remo Banducci proprio mettendolo in concordanza con bandito in una etimologia popolare che non coglie nel segno, ma appunto, si tratta di agenti che raramente ne imbroccano una nel film, sul piano personale Remo Banducci non ha la stoffa del bandito da nessuna prospettiva lo si osservi. Invece è verosimile che il cambio di consonante – attuato con motivazione – sia dovuto ad una critica sostanziale del fascismo parallela sì a quella di Gadda in Balducci, ma più profonda e articolata nel Banducci germiano: Gadda si sofferma in Balducci sulla spavalderia, sulla millantata audacia dei fascisti, su qualcosa di superficiale, di apparente, Germi in Banducci si riferisce al potere fascista, a qualcosa di concreto e più pericoloso, come andiamo a vedere. Certo il termine banda evoca di primo acchito il gruppo di persone, la squadra di persone, ma il concetto della banda come fascia, come legame, è collegabile sia al fascio littorio, che legava assieme con strisce – o bande – di cuoio un fascio di bastoni simbolo del potere imposto con la forza, sia al piano individuale del personaggio. Pertanto piccoli fasci, potenti solo nella violenza appunto fascista, non solo nella boria come in Balducci. Ma anche, metaforicamente sul piano personale del personaggio, piccoli legami o banducci, come lo sono i suoi legami, politici e umani in generale, senza sentimenti veri qualsiasi, come è la squallida verità dell’uomo, del piccolo opportunista Remo Banducci al di sotto dell’apparenza, ipocrita, di persona borghesemente seria e corretta che al contrario si barcamena presentandosi da persona perbene quale non è, questo secondo il testo filmico in tutte le sue componenti relative al personaggio. Al proposito vediamo nel film durante una perquisizione di Casa Banducci l’immagine del personaggio in divisa e fez fascista riposta nello sgabuzzino assieme ad altra immagine con elmetto fascista, immagini che vengono giudicate con sguardo di commiserazione dall’agente – si diffondono comunque stampe della fotografia in divisa e fez a coloro che possono magari ricordare chi fosse realmente Remo Banducci durante il fascismo, per saperne di più sulla sua personalità, ciò che non conduce comunque a nulla, confermando la sua sola apparenza di uomo forte e non di bandito, come ironicamente lo definisce l’agente per scherzo. Un cambio di consonante che rende più complessa e corrosiva la critica al fascismo di quanto lo sia la derivazione da baldo come più sopra – ricordiamo che Germi non fu mai iscritto al Partito Fascista e non ne condivise mai nessuna idea – e dà ragione anche del piano individuale del personaggio Remo Banducci che per altro sviene alla sola vista del cadavere della moglie all’obitorio dove si incontra con il commissario e gli agenti per il dovuto riconoscimento.
Venendo dunque propriamente al film, vediamo dapprima in sintesi molto succinta la trama generale, funzionale a circostanziare l’analisi semantica.
In un palazzo di Piazza Farnese a Roma, abitato da benestanti e anche ricchi borghesi, viene commesso un furto presso il commendatore Anzaloni, commerciante d’arte, che non vorrebbe fare pubblicità dell’evento sui giornali in quanto teme che la sua vita di frequentatore di locali in cui recluta giovani prostituti possa così venire portata alla luce della cronaca. Del citato furto viene sospettato Diomede Lanciani, il fidanzato di Assuntina, donna di servizio di Liliana Banducci, il quale ruba negli appartamenti e si prostituisce all’occasione con mature donne danarose e verosimilmente solo di facciata fa l’elettricista utilizzando tale mestiere soprattutto per prendere visione delle case in cui poi eventualmente andare a rubare – non riesce per altro ad aggiustare l’impianto in Casa Banducci che continua a non funzionare dopo il suo intervento, come evidenzia Remo Banducci al commissario dopo l’assassinio. Per il furto in Casa Anzaloni Diomede ha un alibi confermato dopo qualche difficoltà dalla matura americana con cui stava mentre veniva commesso il furto stesso. Durante l’interrogatorio il commissario si rivolge all’americana in inglese – cenno di riferimento ai diversi linguaggi, anche dialetti, presenti nel romanzo di Gadda. Pochi giorni dopo viene uccisa nel medesimo condominio Liliana Banducci e nello stesso piano in cui si è verificato il furto. Vengono sospettati il marito Remo, interpretato da un eccellente Claudio Gora, vincitore del Nastro d’Argento quale miglior attore, e il cugino Massimo Valdarena – il Giuliano di Gadda è stato sostituito con Massimo in una litote, essendo presentato il personaggio come una totale nullità, ossia per il contrario di un massimo. Entrambi i due sospettati vengono poi scagionati dalla possibile accusa di omicidio vista la validità dei loro alibi. Prima di identificare il colpevole dell’omicidio l’indagine porta comunque il commissario a scoprire il ladro di casa Anzaloni e altri furti, soprattutto l’indagine lo porta a scoprire i retroscena equivoci di tanti personaggi facenti parte della vicenda, ciò in una critica sociale profonda e puntuale, come nei migliori romanzi polizieschi. Il colpevole dell’assassinio, questa volta veramente Diomede Lanciani, viene smascherato per un errore da lui commesso a proposito della chiave dell’appartamento dei Banducci: sottratta la chiave dalla borsa di Assuntina per farsene un doppione senza che questa se ne accorga, quando rimette la chiave nella borsa di Assuntina, invece di mettere il vecchio originale mette per sbaglio il doppione nuovo, che a delitto compiuto viene consegnato al commissario proprio da Assuntina che crede sia la chiave sua di casa Banducci, che aveva in possesso in qualità di donna di servizio. Quando il commissario sta per archiviare il caso per difficoltà di identificare il colpevole – cenno di collegamento al romanzo di Gadda dove il commissario non riesce a individuare l’assassino –, si rende conto del fatto che la chiave singola, che gli ha consegnato Assuntina, sia un doppione come dal confronto con la chiave nel vecchio mazzo dell’assassinata pure in suo possesso. Grazie al riconoscimento del doppione nuovo della chiave – che per altro, appunto perché ancora nuova di zecca, non apre mai fluidamente il portoncino d’ingresso nell’appartamento dei Banducci come il commissario evidenzia ogni volta che sta per aprire la porta, viene dunque identificato, sempre dal commissario, l’omicida in Diomede. Chiude il film la sequenza emozionalmente molto intensa dell’arrivo dei poliziotti che si spargono ai piedi della scala diroccata che porta alla casupola dei due, Assuntina e Diomede, per l’arresto dell’assassino, sequenza comprensiva della scena riguardante la confessione di Diomede, nonché della corsa dissennata di Assuntina dietro la macchina della polizia nella quale viene portato via l’uomo.
Ciò per quanto attiene alla trama bruta del film.
Venendo all’analisi, questa si è estesa principalmente sullo schema, molto generale e integrato da argomenti secondari, fornito da tre tematiche qui ritenute fondamentali e alle quali l’indagine poliziesca funge da canovaccio per l’espressione del complesso messaggio del film.
Per primo dunque, profondo è il significato molto particolare delle ombre, tanto che l’ombra appare essa stessa in tutte le sue manifestazioni quasi come un personaggio a sé stante e particolarmente importante; quale tema ulteriore sta il significato relativo all’attaccamento sessuale all’uomo in un determinato tipo di donna rappresentato eminentemente in Assuntina; infine la già citata profonda critica sociale ad ampio raggio, spesso accompagnata dal marcio delle relazioni a sfondo sessuale stanti fuori da qualsiasi sentimento.
Cominciamo con l’analisi dei chiaroscuri e delle ombre dei personaggi le quali indossano un ruolo considerevole per il significato profondo del film unitamente ai presagi inconsci, oscuri come le ombre per loro natura.
Ombre più o meno marcate e numerose sono presenti nella realtà come fenomeno fisico ove vi siano luce e persone, oggetti e simili. Nelle opere d’arte le ombre, oltre a rientrare nell’ambito dei citati fenomeni ottici, diventano non di rado attributo tecnico e stilistico importante dal punto di vista semantico-emozionale, per fare un nome celeberrimo tra gli altri basti pensare ai chiaroscuri di Caravaggio, anche al cinema muto ed espressionistico, nei quali le ombre e i chiaroscuri sono elaborati con la finalità di esprimere particolari significati ed effetti psicologici. Germi, appassionato di ombre e chiaroscuri specialmente importanti nei suoi film in bianco e nero, esprime attraverso di essi, sottilmente in questo film, molto interessanti simbologie.
Quale indice emblematico e subito in primo piano delle potenzialità semantiche dell’ombra sta ai primi inizi del film la sagoma totalmente nera del commissario nel controluce in cui l’uomo esce a passo deciso dall’androne del palazzo dopo che è stato commesso il furto in Casa Anzaloni. Si tratta di una silhouette totalmente nera che, pur non essendo l’ombra di qualcuno o di qualcosa, rende ombra il commissario stesso, un’ombra che appare dotata di vita propria. Appena uscita la sagoma dal controluce, il commissario, giunto nella luce diffusa di cui vive il quotidiano in generale e divenuto per così dire persona in carne ed ossa, si gira a guardare per un paio di secondi il caseggiato in alto dove sta l’appartamento in cui è avvenuto il furto. L’azione sembra di primo acchito non avere grande senso in sé nella vicenda e di fatto non ne ha molto in seno agli eventi, potrebbe essere che il commissario abbia voluto semplicemente vedere dall’esterno il palazzo, azione che resta però senza ulteriori agganci o conseguenze nel prosieguo dell’indagine e pertanto stranamente presente nella sequenza. Ma in un regista come Germi, attentissimo ai significati delle immagini per come le ha organizzate nei minimi particolari nei tre capolavori degli anni Cinquanta, le varie immagini sono senza senso, tanto per riempire lo schermo in qualche modo e anche questa non è senza senso. A un’analisi oggettivamente fondata risulta esserci un senso non da poco: messa in relazione spaziale al controluce accennato il personaggio alla luce del giorno diviene un polo opposto alla precedente silhouette nera. Ed è proprio in questo consueto quotidiano che la persona del commissario, in comparazione, si fa meno incisiva, le varie tonalità del grigio chiaro in cui si mostra il commissario nella vita reale e concreta lo fanno apparire nella fattispecie più evanescente di quanto appaia, pur senza avere tratti identitari del volto, come sagoma nera e compatta. In tal modo, nel contesto delle due immagini contrapposte come due identità del commissario, emerge come l’impalpabile realtà dell’ombra, enfatizzata metaforicamente nella scurissima sagoma del controluce, ossia l’immagine che oscura l’identità di superficie, enfatizzi l’identità inconscia del commissario, molto più incisiva rispetto a quanto contraddistingue in linea di massima la normale vita degli umani nel concreto della superficie visibile. Ribadendo: il cinema vive di immagini che sono come ombre impalpabili rispetto agli umani in carne ed ossa e, nella contrapposizione testé accennata dell’immagine del commissario proiezione del regista, il mondo umbratile e artistico del cinema appare, per così dire ossimoricamente, più solido rispetto alla vita concreta e materiale. Ossia ancora: nel confronto tra cinema e vita, il risultato più pregnante, più capace di durare nel tempo, di vivere una vita, se non eterna, senz’altro meno caduca di quella di cui possono disporre gli umani in carne ed ossa. Al proposito vi è nel film una breve proiezione della pellicola relativa al funerale dell’assassinata. Il commissario assieme agli agenti guarda, nell’oscurità di un rapidissimo controluce, la pellicola così come fossero a loro volta ombre oscure, mentre le persone presenti frontalmente nella proiezione al seguito del funerale dell’assassinata sfumano nei toni del grigio e del nero spento, anche bianco dei fiori del funerale, di nuovo una contrapposizione tra il nero compatto delle sagome in controluce come ombre personificate e pregnanti e le immagini piuttosto sbiadite delle persone riprese nel reale quotidiano, nello specifico dal funerale dell’assassinata, dove appaiono come immagini più o meno spente e ance appositamente sfocate. Non a caso il commissario, dal buio da cui guarda la pellicola relativa al funerale, osserva come Assuntina nel filmato che riproduce la luce del quotidiano reale, sembri più vecchia, ciò che richiama alla doppia identità di ombra nera del commissario nel controluce quando esce dal palazzo e di persona concreta quando si gira e rimanda alla condizione degli umani quali esseri più vicini alla morte – per altro il filmato del funerale, molto simbolicamente, è muto – rispetto alla vita incorruttibile o quasi del cinema, delle sue ombre inafferrabili.
Anche il ladro di Casa Anzaloni esce dal palazzo nel controluce, correndo a più non posso per non essere acciuffato, ma, nel diverso contesto psicologico, la sua sagoma scura si vede per un breve flash così che non si nota grande differenza tra l’immagine in controluce e quella in luce diretta, quasi si trattasse di un individuo che abbia vita solo di superficie.
Anche Diomede, a delitto compiuto, viene inquadrato nel controluce come sagoma nera mentre esce a passo sostenuto dall’androne, in una metaforica evoluzione della sua ombra grigia agli inizi del film di cui fra poco i particolari. Questa azione è posta alla fine del film, riguarda l’analessi relativa alla confessione dell’assassino che ricostruisce il delitto nell’interrogatorio del commissario in presenza dei suoi agenti, stando nella casa stessa in cui è stato fermato. L’ombra nera di Diomede assume, nel contesto della ricostruzione, valenza simbolicaper la negatività dell’assassino, di una persona pronta a qualsiasi devianza, anche la più tremenda, una devianza presente nel suo inconscio e appunto perciò nera e audace, pronta a realizzarsi. Fuori dall’androne dopo l’assassinio Diomede appare nei panni esteriori dell’uomo qualsiasi. Del delitto resta visibile solo una grossa macchia di sangue sui pantaloni, mentre la mano prima insanguinata risulta pulita, come pure viene riposto in una tasca della giacca il cacciavite, l’arma del delitto, così che il ladro e assassino possa andare nel mondo sociale con le mani nette e la facciata salva. La figura di Diomede come sagoma e ombra nerissima nel controluce e di Diomede nella luce diretta come uomo del normale quotidiano mette in rilievo, sempre nel contesto, l’ipocrisia di cui si può vestire, nella fattispecie, il delinquente nella vita sociale: l’ombra nera è portatrice della verità profonda, chiusa nell’inconscio, dell’anima di Diomede e visibile solo per qualche secondo, mentre la sua immagine nel reale, più sfumata in tinte chiare, è più adatta a mascherare e nascondere simbolicamente l’anima nera. Diversamente e ugualmente, nell’ossimoro, l’ombra del commissario nasconde il suo inconscio indagatore dell’essere umano, il quale nella norma viene celato il più possibile, ma è più importante della sua facciata sociale.
Il senso di caducità della vita, espresso dalla presenza delle persone del concreto e materiale quotidiano secondo quanto testé rilevato, si ritrova nelle immagini dei luoghi che compongono i titoli di testa e di coda. Nei titoli di testa viene inquadrata quasi per tutta la durata degli stessi la fontana di Piazza Farnese che sta di fronte al palazzo, ciò sullo sfondo musicale, come anticipato, della canzone Leitmotiv della colonna sonora di Carlo Rustichelli con collaborazione di Pietro Germi, nonché cantata dalla splendida voce di Alida Chelli. La fontana mostra acqua che zampilla e fluisce sempre nuova e continuamente, traboccando e cadendo, dal primo più piccolo livello in alto, nella grande vasca a sua volta posta su un’altra vasca con ulteriori zampilli, acqua che fluisce dileguandosi in un metaforico sottosuolo, come immagine per lo scorrere inarrestabile della vita e per la sua dispersione, per la sua caduta a terra e anche penetrazione sotto terra nel finale del viaggio. Al termine di tali titoli di testa il palazzo, inquadrato con un lento movimento di macchina in una panoramica dal basso verso l’alto che mette in evidenza l’imponenza dell’edificio, sembra disabitato, con grandi spazi vuoti e bui, neri o quasi del tutto neri che accompagnano le scale e associano la più fredda immagine cimiteriale collegata alla simbologia intrinseca allo scorrere dell’acqua sotto terra testé accennato. Un luogo non lieto per come viene presentato, non un luogo di vita all’apparenza e non solo per via dell’omicidio che avverrà in uno dei suoi appartamenti, ma anche come metafora per l’umanità destinata a scomparire e a lasciare dietro di sé il vuoto, il nulla di un cimitero, nonché l’immondizia sottoterra collegata al cimitero. Vi è una conferma di questa metafora cimiteriale, priva di qualsiasi illusione metafisica, a film già iniziato: mentre un giovanissimo cameriere sale le scale – non è ripreso mentre le scende, la sua vita è ancora in ascesa – e gira, nell’inquadratura, le spalle al senso di morte, che per così dire vive dentro il palazzo nell’inquadratura delle scale, per portare la colazione ad alcuni clienti nel palazzo – viene inquadrata, ad hoc, la nicchia a tutta parete a lato del pianerottolo tra una rampa e l’altra con l’opaco lampioncino dall’atmosfera molto simile a quelli di molte tombe e cimiteri, poi la cinepresa riprende un oscuro dettaglio per un paio di secondi, ossia l’incavo circolare nella nicchia compreso il lampione dalla luce opaca, così che l’associazione con un possibile monumento tombale si fa ancora più esplicita. Per continuare con una ulteriore associazione come nell’immagine evangelica (Edizioni Paoline 1963: Matteo, 23, 27-28): un’umanità fatta di sepolcri imbiancati, proprio come appare il caseggiato nella ripresa che ne fa Germi che risulta molto affine a un insieme di sepolcri, dai muri imbiancati affinché nascondano la putredine. Più avanti nel film, dopo che Banducci, marito dell’assassinata, ha confessato la sua tresca con una giovinetta, il commissario afferma, a conferma, che le cose stanno come quando in campagna si muovono i sassi e sotto si trovano i vermi, ciò di nuovo in associazione all’immagine dei sepolcri imbiancati con quanto si collega ad essi nelle riprese significative del palazzo cui abbiamo accennato.
Adesso una nota sul parallelismo per contrasto e anche per somiglianza tra il ricco palazzo e l’abitato povero in cui vivono Assuntina e Diomede, nel finale del film, subito prima dell’arresto e dei titoli di coda. Qui si è di fronte a un’estesa decadenza, la povertà mostra tutta la sua bruttura, vi è anche qui una scalinata, ma esterna e diroccata, tutt’intorno si vedono decrepitudine, rovina, incuria, si accenna anche a un fontanone nei pressi dei fatiscenti edifici. La casa che sta in cima alla scala si allaccia, nel contesto, al degrado morale di chi ci abita: un assassino e una donna che lo copre ad oltranza e si rende così altrettanto colpevole se non più colpevole di lui. Dal punto di vista dell’umanità che vive nel palazzo a Roma e nella palazzina nella periferia la differenza non è così evidente come quella tra la ricchezza e la povertà degli ambienti. Da un lato un’umanità borghese, ipocrita e marcia: Remo Banducci con la sua frequentazione di mezzane e con la sua relazione con una ragazzina minorenne, da lui definita “una bambina”; inoltre un anziano signore, il commendatore Anzaloni, che si dichiara per bene, ma non vuole che si venga a sapere che frequenta un locale per ragazzetti onde reclutare coloro tra essi che si prostituiscano; dall’altro lato un ladro e omicida assieme a una donna disonesta nel profondo che lo vuole sottrarre e lo sottrae finché può, ad oltranza, alla giustizia pur sapendo che è un assassino. Sembra dunque che in questo film moralmente ci siano persone disoneste in vari livelli sociali, nei ceti ricchi, impuniti sebbene marci in profondità, e in quelli poveri fino al delitto. A proposito dell’impunità che contraddistingue alcuni personaggi della borghesia benestante e anche ricca, il commissario, guardando a lungo in faccia Valdarena, l’approfittatore, calunniatore e ingannatore di donne e di tutti – finge, nel film, non nel romanzo, di essere laureato in medicina quando non lo è –, gli dice con rammarico come malgrado tutti gli sforzi non sia riuscito a trovare un solo articolo del codice penale che lo possa far finire in galera, ed è proprio a lui che Ingravallo dice in altra occasione se sappia che gli piace sempre meno, ma il Valdarena non prende botta, in altra occasione ancora relativa alla menzogna della laurea mai conseguita, gli risponde con un sorrisetto come non si sia mai spacciato per medico per iscritto. Non solo, quando il Balducci confessa la sua tresca con Virginia, la minorenne di cui egli ha abusato sia quando era ancora viva la moglie ed essa era la donna di servizio prima che subentrasse Assuntina, ad un certo punto scoppia in lacrime e allora il prete è subito pronto ad abbracciarlo, accarezzarlo, ossia a consolarlo più che maternamente, con comprensione e qui Germi coinvolge anche la Chiesa nella comprensione di tradimenti e abusi maschili della donna in generale, ciò che non fa mai il commissario appunto, il commissario dall’ombra sempre tutta d’un pezzo, non frammentata come ad esempio quella di Valdarena sulla porta d’ingresso dei Banducci. Si nota di fatto come nel film la sessualità mal gestita accompagni sempre il marcio sociale. Fa eccezione Assuntina che ama o crede di amare Diomede? Assolutamente no, come vedremo in dettaglio analizzando questo importante film, uno dei tre capolavori di Germi assieme a Il ferroviere e L’uomo di paglia.
Tornando alle ombre, viene dunque data nel film una piuttosto ampia visibilità sia alle ombre proprie, ossia quelle che la luce genera sul corpo stesso della persona, sia alle ombre portate, ossia quelle proiettate dal corpo su altra superficie che ne riflette con varianti prospettiche la forma, con corrispondenza a una semantica voluta consapevolmente dal regista, nel caso di specie da Pietro Germi.
Le ombre proprie danno alle immagini spesso contrasti di chiaro e scuro anche piuttosto notevoli, dove la parte scura occupa in più di un’occasione spazio maggiore di quella in luce. In questo modo le immagini dei corpi talora fortemente ombreggiati delle persone, danno l’impressione che queste siano fatte di pezzi di ombre più che di corpi, ombre che evidenziano simbolicamente la comunque comune situazione esistenziale umana, appunto di un’umanità transeunte, destinata a perdere il corpo e anche la sua ombra, il tutto confuso a frammenti.
Quanto alle ombre portate, ve ne sono di vario genere. Per quanto riguarda le ombre proiettate sui corpi di altri personaggi e che si intersecano e si sovrappongono fra di loro talora non rendendo più riconoscibile l’appartenenza di ciascuna, esse rendono visibile sul piano metaforico l’idea di un disordine di identità e di azioni apparentemente inestricabili, disordine che il commissario vorrebbe dipanare e che il regista padrone delle ombre vorrebbe chiarificare attraverso un’arte cinematografica capace di penetrare nel profondo della realtà. Certo l’ombra, metafora per eccellenza del doppio nella personalità degli umani, non di rado ottiene un’evidenza particolare proprio nei film dell’ambito che la cultura italiana definisce del Giallo, dove l’identità degli assassini che premeditano il delitto o stanno per compierlo si nasconde talvolta nell’ombra che li precede, li segue o li affianca senza che venga visto il loro volto di persone concrete, così che non si sappia subito o si apprenda solo alla fine chi sia l’individuo in carne ed ossa e si veda solo l’immagine inquietante della sua intenzione non rivelata, ma intuibilmente non positiva, ciò che crea suspense e paura nello spettatore data l’oscurazione dei tratti identitari e lo spavento più o meno grande e di varia natura che secondo i contesti ne consegue. Tuttavia in questo film, pur poliziesco in piena regola, Germi non utilizza lo strumento dell’ombra con la finalità di creare paura – tranne in un paio di casi di cui più avanti in cui le ombre portano un’atmosfera sinistra in sé, come vedremo. Nel film non è mai o quasi mai Diomede, l’omicida, ad essere accompagnato dalla sua ombra e, quando accade che la sua ombra lo accompagni, ciò non crea particolare suspense. È in genere l’ombra che rimanda a un uomo dappoco, a un poveraccio come di fatto è questo personaggio che uccide per pura perdita di controllo durante il furto che degenera in rapina a mano armata – di cacciavite – con omicidio. Si tratta di un’ombra quasi sempre sbiadita, evanescente, di un grigio chiaro e dai contorni non particolarmente netti, ossia in un chiaroscuro appena accennato e anche quando è nera – vedi la sagoma nel controluce – non fa propriamente paura, come anche, quando apre la porta di Casa Banducci con l’intenzione di rubare i gioielli della signora che poi ucciderà, la sua ombra nera si riflette compatta sul portoncino come decisa è la sua volontà di compiere l’azione illegale, ma non crea particolare suspense, è un’ombra nera perché, nel contesto, presaga del delitto che l’uomo compirà, certo senza averlo premeditato, ma avendolo comunque, del tutto inconsciamente, previsto o messo in conto come possibilità, come la sua ombra scura portatrice del suo inconscio già sa perfettamente.
Per chiarire un concetto fondamentale a monte della presenza di ombre significative relative a diversi personaggi della vicenda dalle diverse personalità, ombre riflesse su porte, pareti, mobili e messe appositamente in maggiore e specifico risalto nelle inquadrature: si ha a che fare nel film con ombre che qui definiamo sapienti per intenderci, ombre rappresentative dell’inconscio, del lato oscuro della personalità dei loro proprietari, le quali ombre pare spesso sappiano di più di quanto i proprietari sappiano o credano di sapere su se stessi.
Diamo qualche esempio esplicativo di quanto affermato relativamente alle ombre che Pietro Germi presenta soprattutto in questo film.
Interessante al proposito è ai primi inizi del film, nell’ufficio del commissario, l’ombra grigia di Diomede – ancora non vi è l’audacia dell’ombra nera fornita dal furto-rapina e dal vicino delitto, ma la sua ombra ha in sé, come accennato, qualcosa di molto sinistro, come chiariamo subito. Diomede viene riconosciuto non colpevole del furto avvenuto precedentemente nel palazzo in Casa Anzaloni, in quanto è in possesso di un alibi confermato, quello del prostituto di donne danarose e cosiddette mature. Viene quindi congedato dal commissario in quanto riconosciuto innocente. Nell’andarsene sbaglia porta di uscita dirigendosi all’interno degli uffici, come inconsciamente per starci o tornarci. Il commissario indirizza allora Diomede – molto malamente, in quanto intuisce la potenziale pericolosità insita in un tale individuo senza onore – verso l’uscita che sta dalla parte opposta, così l’uomo torna indietro visibilmente imbarazzato per aver dovuto ammettere di prostituirsi e svolta verso l’uscita indicata dal commissario. Per l’apposito gioco di luci e della ripresa la sua ombra, o la sua anima profetica per usare un termine di amletica memoria, non lo accompagna nell’uscire, bensì, come viene messo per un istante, comunque in particolare evidenza nell’inquadratura ad hoc, sembra muoversi in modo indipendente dal suo proprietario e, in armonia con il precedente inconscio errore di direzione, come disincarnata e non diretta all’uscita verso la quale si sta dirigendo l’uomo in carne ed ossa, ma come per stare o tornare nell’ufficio di polizia. Ciò in un’anticipazione del futuro destino cui sta andando incontro il personaggio, quasi come se l’ombra ne aspettasse sinistramente il ritorno in commissariato, sicura che l’uomo ci sarebbe ritornato per la possibile e incombente azione delittuosa, quasi fungendo da funesto richiamo di verità a Diomede che se ne sta andando credendosi libero, ma essendolo a sua insaputa ancora per poco, quasi prigioniero della sua ombra, del suo inconscio presago. In altri termini: il sospettato è libero perché è riconosciuto non colpevole del furto in casa Anzaloni perpetrato da uno dei prostituti di conoscenza e frequentazione del commendatore che si ritiene persona rispettabile, ma la sua ombra, il suo sé più profondo, più inconscio e più veritiero, più sapiente di lui, torna indietro grazie agli effetti illusionistici resi visibili appositamente alla parete e sembra rimanere dal commissario come se aspettasse, appunto sinistramente, il suo proprietario che sarebbe tornato presto in commissariato a causa dell’omicidio. Un assassinio, come anticipato più sopra, non premeditato, ma neanche escluso, come ben sa il profetico lato oscuro. A conferma della negatività dell’uomo, il commissario dice subito dopo ad Assuntina, che sta attendendo l’esito dell’interrogatorio in un altro corridoio, che farebbe bene a lasciare il suo fidanzato, che non ha commesso il furto in casa Anzaloni, ma che poteva averlo commesso perché persona non raccomandabile, consiglio rifiutato da Assuntina che non sente ragioni sulla natura di colui che essa vorrà come suo marito, anche quando saprà che si tratta di un assassino e per di più di Liliana Banducci, la sua benefattrice. Varie negatività – secondo Germi e come accennato – collegate in parallelo a una gestione della sessualità senza sentimenti, tema su cui Germi torna in tutto il suo film.
A proposito di premonizioni inconsce e di oscurità, accanto alle ombre sapienti vi è l’episodio molto interessante della bambola, il quale non sta nel romanzo di Gadda – nel romanzo sta solo citata una “pupazza” (Gadda 1957/2008: 80) che Ingravallo, il commissario, avrebbe regalato alla ragazzina se avesse testimoniato dicendo la verità su Valdarena, relativamente al fatto se lo avesse o meno visto sulle scale il giorno del delitto, ma non vi è null’altro nel romanzo su pupazze e bambole, nonché presagi ad esse collegati, per cui l’episodio presentato nel film va attribuito per intero a Germi, al suo messaggio. Dunque il commissario, che ha preso in mano una bella bambola seduta in una poltrona del soggiorno della Banducci, chiede a questa se la bambola sia un ricordo d’infanzia. Liliana Banducci rievoca l’evento che si riveste nel film di presagi inquietanti di morte di cui la donna non è consapevole, ma che si avvereranno di lì a poco. Il padre dunque si era fermato davanti a un negozio di giocattoli e aveva visto una bambola che a suo dire assomigliava alla figlia. Anche il commissario riconosce come forse le assomigli. È orario di chiusura e le luci della vetrina si spengono improvvisamente. Allora la bimba si mette a piangere, non tanto perché voglia la bambola, ma perché le luci si sono oscurate sulla bambola. La Banducci si chiede, parlando con il commissario che essa apprezza e anche le piace come uomo dalla personalità ben diversa da quella del marito, come mai si sia messa a piangere allo spegnimento della luce e sorride per questa sua reazione che ritiene infantile e il cui significato, rimasto inconscio, non comprende. La domanda però risulta, nel film, funzionale a fermare l’attenzione proprio sulla presenza e, visto il vicino omicidio ai danni della donna, sulla validità dei presagi più o meno inconsci. Nelle luci che vengono spente sta l’anticipazione profetica del possibile destino crudele di morte prematura e violenta della donna, questo come se le persone portassero dentro di sé il loro destino già segnato, e nel pianto della piccola pare appunto esserci un presagio del tutto inconscio di quanto accadrà a lei stessa. Il peggio in fatto di presagi lugubri è che il padre non lasci perdere, bensì insista ed entri nel negozio chiedendo al proprietario di vendergli la bambola. In tal modo la può dare alla piccola – che appunto le assomiglia –, sul piano simbolico come a ribadirne il destino che il padre stesso le consegna in mano, ossia di cui le fa sinistramente quanto inconsciamente dono. Per concludere l’episodio: il commissario prima di uscire da Casa Banducci, avendo intuito la natura non lieta dell’evento relativo alla bambola riferito dalla signora, non solo la saluta e la prega di portare ad Assuntina i suoi auguri per il vicino matrimonio, ma fa gli auguri per altro con tristezza anche alla Banducci sebbene non ve ne sia un motivo evidente, salvo appunto che nell’intuizione del commissario del significato premonitore del triste episodio. Per quale motivo Germi inserisca l’episodio della bambola è facilmente deducibile, come accennato: proprio per dare il maggiore spazio alla presenza e validità delle ombre e degli oscuri presagi inconsci e la scelta della bambola al proposito pare collegarsi per qualche aspetto all’antica tradizione popolare secondo la quale le bambole portavano fortuna, ma potevano rappresentare anche destini di morte nelle varie forme di magia.
Prima di tornare più direttamente al tema delle ombre sapienti, in questo film, oltre all’episodio ora citato, sembrano deporre a favore di una sensibilità particolare di Pietro Germi i segni per così dire fatali, se non quali premonizioni, senz’altro quali particolari coincidenze. Nell’analisi del significato dell’arte non si può mai spiegare l’opera con la biografia, ma eventualmente si può andare dal significato dell’opera alla personalità dell’artista, alla sua biografia, come nell’ipotesi testé delineata. In questa prospettiva anche quando il commissario parla della povera signora Banducci con il parroco don Corpi e questo afferma con un certo disprezzo che la stessa consultava spesso fattucchiere, cartomanti e ciarlatani vari – senza sapere che la predicazione ecclesiastica non sia molto diversa da quella dei personaggi disprezzati –, il commissario interviene dicendo seriamente e con disinvoltura, mentre tuttavia viene ripreso in un mezzo primo piano specifico che dà rilevanza a quanto dice senza alcuna ironia all’apparenza: “Lo so, lo so, ne conosco uno”, senza dire nulla di più in merito, ma l’uso del presente fa propendere per una conoscenza ancora in atto, non quindi dovuta a circostanza casuale non più in atto. La conoscenza di un ciarlatano di cui nulla viene più appreso nel corso del film rimanda verosimilmente all’ipotesi che si tratti di quello che ha di fronte, il prete appunto. Vediamo anche che il prete consola molto visibilmente e a lungo con carezze maternamente impostate addirittura Remo Banducci, l’abusatore di ragazzine, stretto al suo petto, quando singhiozza apparentemente disperato e ha appena detto di avere una relazione con la giovinetta Virginia – o bambina come Banducci la definisce senza vergognarsene, anzi con un sorriso da persona buona, ma sconvolgente nel contesto delle azioni –, per cui il prete stesso non viene messo proprio in buona luce da Germi che invece disprezza Banducci per le sue relazioni poco decorose e in sé reati penali vista la minore età di Virginia. In ogni caso: quando il commissario parla con Remo Banducci poco dopo il riconoscimento del cadavere avvenuto all’obitorio, gli consiglia di non vendere l’appartamento lasciatogli in eredità dalla moglie – così era ovvio ritenere al momento, prima di avere letto il testamento che deciderà diversamente –, in quanto l’omicidio avrebbe deprezzato l’immobile, questo perché la gente “è superstiziosa”, frase pronunciata con una molto particolare enfasi espressiva, adatta ad attirare di nuovo l’attenzione dello spettatore sull’ambito delle credenze, delle superstizioni. E per altro, è il caso di sottolineare ancora, in tutto il film sono presenti non poche ombre sapienti, che conoscono il futuro, ma non in base ai ciarlatani, bensì come lo prevede l’inconscio o l’intenzionalità inconscia resa visibile proprio attraverso le ombre e la loro elaborazione artistica e tutto ciò, nel contesto, depone per l’ipotesi di una possibile credenza nei presagi inconsci, nei presagi non lieti nel messaggio del film, secondo il regista, secondo Germi. Presagi inconsci che non solo Freud, ma tutta le scienze specifiche hanno riconosciuto come validi, precedendo essi sempre, cronologicamente, lo stato o risultato della consapevolezza.
Tornando più direttamente adesso alle citate ombre sapienti, un ulteriore esempio tra gli altri possibili è dato dall’ombra di Valdarena, il cugino opportunista di Liliana Banducci il quale si spaccia per medico senza esserlo – come anticipato, in Gadda è un neolaureato – e non si vergogna dei suoi comportamenti da uomo dappoco, da quasi mantenuto. Quando è seduto al tavolo del suo studio da sedicente laureato, vediamo come la sua ombra nera si rifletta a metà sui tendaggi, nera non tanto per l’anima del personaggio che è solo un uomo dappoco, che vive comunque di ricatti e di azioni vili – il commissario ad un certo punto, come accennato, si rammarica di non poterlo far finire in galera non essendoci articoli di legge idonei in tal senso. Perché quindi l’ombra è nera pur non essendo Valdarena un vero e proprio delinquente, un cattivo? L’ombra è nera soprattutto affinché nell’occhio dello spettatore abbia piena evidenza e possa venirne recepita la corrispondente semantica: un’ombra a metà come Valdarena – nella fattispecie seduto al tavolo – è uomo a metà al di là del perbenismo ostentato ipocritamente nell’ambiente sociale. Quando sta di fronte alla porta di casa Banducci dove a terra troverà il cadavere di Liliana, sua cugina, la sua ombra nell’inquadratura si proietta molto visibilmente spezzettata sull’uscio secondo le sporgenze dell’ornamentazione lignea dello stesso, ciò di nuovo in corrispondenza della sua personalità non certo tutta d’un pezzo, non integra, in corrispondenza della sua disponibilità a ogni sorta di compromesso senza neanche vergognarsene. Al contrario, quando è il commissario a entrare in casa Banducci, la sua ombra si staglia nera e senza frammentazioni sulla medesima porta, nel suo caso come ombra di un personaggio dalla personalità integra, forte, non disposta a vili compromessi, a vie traverse. Quando apre la medesima porta Diomede per rubare in casa Banducci per esempio, come anticipato, la sua ombra nell’inquadratura, non più grigia come in commissariato, bensì scura e compatta, non segue il gioco delle sporgenze e ornamentazioni della stessa, ciò in corrispondenza della sua decisione di rubare, che richiede comunque fermezza e coraggio oltre che, nell’occasione, una personalità nera come nella previsione inconscia più drammatica che a sua insaputa la sua ombra esprime sapientemente.
Si è parlato più sopra di ombre sinistre. Non casuale è nel finale l’ombra nerissima di Assuntina che compare per un paio di secondi – non ce ne sono altre sue di importanti nel film. La donna, sola nella stanza, stira piegandosi sul tavolo nella cucina della sua casupola dove vive con l’assassino della Banducci diventato suo marito, in un reiterato movimento di abbassamento del busto e di basso sollevamento successivo per agevolare la stiratura. Qui la sua ombra nerissima stagliata dietro di lei quasi nascostamente sulla credenza si piega e ripiega come appunto sta facendo la donna e in questa azione la sua ombra appare nella prospettiva e nella strutturazione quasi come quella di una vecchia strega, furiosa nei movimenti e rimpicciolita come piccola interiormente è Assuntina, nonché dalla personalità ossessiva. Un’ombra che è un gioiello semantico di Pietro Germi a livello iconico. L’ombra, priva di tratti identitari, enfatizza il movimento di piegamento e sollevamento come se assentisse, quasi avesse vita propria, ripetutamente e molto sinistramente con il capo, come se sapesse che Assuntina debba chinare presto il capo davanti ai fatti, ormai messi in moto che essa lo voglia o no, non solo: quando Assuntina smette di stirare sospettando che la polizia sia venuta a cercare Diomede perché ha sentito rumore di macchine che si sono fermate davanti alla scalinata che porta alla sua casa, il suo sguardo quando gira la testa verso la provenienza del rumore appare in allerta, mentre la sua ombra dietro di lei, priva di sguardo e impersonale, si gira ovviamente anch’essa e per una frazione di secondo l’effetto visivo, piuttosto sinistro, è come se l’ombra guardasse Assuntina con gli occhi ciechi dell’inconscio e stesse in fredda attesa del destino ormai, di quanto già previsto e in atto. Così il profondo inconscio di Assuntina, depositario della verità del personaggio, pare saperne più di lei. E così il regista – e artista – Pietro Germi esprime il suo particolare rapporto estetico con l’inconscio che rappresenta attraverso appunto la presenza di ombre, in questo studio definite sapienti.
Una doverosa digressione qui sugli occhi di Claudia Cardinale nel film. Germi, da regista di rango, è riuscito a fare esprimere in quasi tutto il film dai suoi occhi in sé magnifici lo sguardo fisso e ottuso della donna stolta che mente convinta con assurda presunzione che le sue sciocche e false parole bastino a cambiare la realtà dei fatti, performance in cui i suoi occhi divengono – non solo grazie al trucco apposito, ma anche all’espressione che Germi ha saputo ottenere dalla Cardinale – occhi comuni, certo non brutti, ma neanche stupendi come essi erano in realtà, apparendo anche meno lunghi di come lo fossero nell’attrice, in quanto spesso spalancati e tondeggianti perché sempre ottusamente in allarme per le sorti di Diomede, per il rischio di perderlo. Quale omaggio, Germi concede poi agli occhi in realtà straordinari della Cardinale un paio di fotogrammi di incomparabile bellezza proprio nel finale. Rovesciata a faccia in giù sul letto, poco prima che l’uomo sia portato via, viene ripresa lentissimamente in un’inquadratura dove viene data piena ragione dei suoi occhi lunghi, del suo sguardo malioso come forse mai in nessun film così stupendo che Germi ha saputo cogliere. In questo omaggio, più unico che raro nella carriera della Cardinale, essa riacquista dunque per un breve paio di attimi lo splendore di occhi completamenti diversi da quelli adatti al personaggio nel film, come due raggi luminosi che si intravedono penetranti, indimenticabili. Per altro la Cardinale ebbe a dire e a ribadire come proprio Pietro Germi le avesse insegnato a fare l’attrice anche di parti drammatiche, ciò per cui gli fu sempre grata.
Tornando alle ombre e ai presagi, si è visto già con qualche esempio la particolare importanza che Germi ha conferito in questo film all’ombra che appare come personaggio a sé stante, vero e proprio personaggio anch’essa, ombra spesso in parte postprodotta e resa adatta ad esprimere il significato voluto per essa, intenzionalmente, da Germi, primo fra tutti la sua manifestazione dell’inconscio, della personalità inconscia dell’uomo variamente atteggiata secondo le verità più profonde della sua personalità, ombre nella fattispecie guidate consapevolmente dal regista.
Ma l’ombra semanticamente più interessante delle altre pur anch’esse diversamente significative è quella del commissario. Qui Germi raggiunge un ulteriore vertice nella semantica riservata alle ombre. La speciale caratteristica che si ripete relativa all’ombra di Ingravallo è che essa talora se non sempre appare duplicata, ossia il commissario pare avere bn on di rado con sé due ombre in immagini appositamente messe in evidenza nelle inquadrature. Ombre duplicate per effetto di luci e angoli delle pareti, angolazioni delle riprese che stanno normalmente anche in altri film senza particolari significati, ma le ombre di questo commissario non sono quasi mai casuali, come mostra la semantica coerente ad esse intrinseca.
Ne vediamo qualche esempio. Quando il commissario entra a casa sua, nella sua camera da letto, è solo, nessuna donna gli fa compagnia con il suo affetto e la sua presenza amorevole. In compenso sulle due pareti ad angolo della stanza si riflette la sua doppia ombra che prende il posto di suoi possibili amici che non ci sono. Le due ombre sono piegate in avanti come il commissario, una appare piegata più corta, come stesse cercando qualcosa in basso, distinta dall’altra più lunga e più dritta come se guardasse più in generale l’ambiente, ombre come avessero vita propria, ombre del suo inconscio sempre all’erta che proteggono il commissario perlustrando l’ambiente in qualità di suoi uomini più fidati che il suo inconscio segreto gli mette a disposizione nella sua professione, nella sua vita, una vita solitaria, priva di affetti – il commissario ha sì una donna, ma privilegia il suo lavoro di poliziotto, per cui non la vede mai e il suo affetto non gioca un ruolo nel film se non come assenza, addirittura non riconosce la sua voce al telefono tanto poco la pensa e non vuole parlare molto con lei così che essa poi non lo contatta più, abbandonandolo per sempre. Per concludere: a casa sua il commissario ha la compagnia delle sue ombre in luogo di qualsiasi persona in carne ed ossa, ha la compagnia delle ombre per così dire inviate dal suo inconscio con cui pare avere il migliore rapporto, un rapporto di perfetta solitudine con se stesso – ombre che sono anche le ombre che animano i suoi film come regista. In una ulteriore immagine, degna di comparire in una fiaba, compare alla parete di uno degli uffici della Squadra Mobile la doppia ombra, ripetuta più in alto e più in basso, del braccio destro del commissario con il pollice evidenziato sul resto della mano a stimolazione dei suoi agenti, ripetuta e rafforzata dall’ombra, verso la porta di uscita affinché qualcuno segua immediatamente Banducci, ordine che il brigadiere Oreste esegue all’istante uscendo di volata dall’ufficio. Così nell’immagine si vedono tre braccia: quella del commissario in carne ed ossa e le due ombre dello stesso braccio – i suoi più veri, personali bracci destri – che ne ripetono il movimento rapido dando il loro silenzioso, ma molto efficace manforte alla sua personalità doppiamente capace di farsi obbedire e anche di corsa perché ha l’appoggio del suo fortissimo doppio, l’inconscio. Le due ombre, messe in evidenza alla parete dietro al commissario, paiono anch’esse avere autonomia dalla mano concreta del commissario, come fossero appunto molto evidentemente un suo doppio sé al suo servizio indipendentemente dal suo corpo, suoi magici uomini che interpretano i suoi comandi prima ancora che vengano dati – per altro l’inconscio ha sempre la precedenza sul conscio, come Germi mostra di sapere. Così di nuovo in altre occasioni l’ombra del commissario è o reduplicata dietro di lui lateralmente o si annuncia prima che si veda la sua concreta figura, come quando si affaccia all’uscio dell’ufficio della Squadra Mobile dove il maresciallo Saro sta interrogando o meglio accusando Diomede del furto in casa Anzaloni e Assuntina lo sta difendendo senza vergogna di mentire come ha già mentito svergognatamente quando viene interrogata in casa Banducci per lo stesso furto. Allora il commissario, appunto, preannunciato dalla sua ombra nera e compatta, temibile come il suo inconscio sapiente, proferisce la frase rilevante per il significato del film: “Ma perché ti ostini a difenderlo?”, ciò cui Assuntina risponde di nuovo mentendo, volendo spacciare per verità le sue menzogne sapendo di mentire e scioccamente ritenendo che esse possano essere credute dal commissario che essa nel finale del film accusa insensatamente addirittura di inventarsi che sia stato Diomede ad assassinare la sua padrona, ossia misurando con il suo corto metro: come lei inventa che non sia stato Diomede, così afferma che il commissario si inventi che l’assassino sia Diomede, il tutto proferendo parole in una velocità davvero insopportabile tanto che il commissario la fa tacere stingendole la bocca e il viso con la sua mano. Il gioco relativo all’ombra del commissario raggiunge uno tra gli apici quando, a casa di Banducci mentre questo viene da lui interrogato, il commissario si cala il cappello nero sugli occhi e sul volto oscurandolo quasi del tutto così che si presenta egli stesso per un mezzo secondo come sua propria ombra, concreta, assomigliando sorprendentemente a quelle proiettate sulle pareti prive di tratti identitari, solo quale immagine più incisiva e anche più sinistra delle ombre stesse proprio perché, ossimoricamente ombra che si personifica in carne ed ossa, ciò che accade furtivamente, per la durata di un rapido flash. La vera personalità del commissario non viene recepita da Banducci che non si accorge propriamente di chi abbia di fronte: il doppio del commissario in incognito quale ombra che lo osserva dal profondo della sua mente senza occhi e senza essere visto e lo scruta nella sua verità nascosta. In altri termini: il commissario, proprio quando ha intuito che Banducci avesse non solo sporadici incontri di tipo sessuale durante i suoi viaggi dato che non aveva più ormai da diversi anni relazioni sessuali con la moglie dopo il secondo aborto, ma avesse anche una vera e propria amante stabile, mostra per un attimo la sua vera identità che è quella dell’ombra che osserva non recepita dagli altri la realtà delle persone attorno a lui, come se Germi abbia voluto evidenziare in questo film che non sia solo o non tanto la persona in carne ed ossa ad avere il maggiore peso in quanto può mentire e dissimulare, ma sia anche e soprattutto l’ombra, il sé più nascosto, più profondo e più veritiero, il custode e l’interprete della verità della persona, delle sue intenzioni più veraci. Anche in un’altra occasione, nell’ufficio del comando dei carabinieri, il cappello del commissario scende a oscurare il volto e di nuovo si fa avanti per un rapido flash l’immagine della sua ombra personificata, ciò in un effetto illusionistico sempre piuttosto sinistro dovuto alla sorpresa della presenza improvvisa di un’ombra personificata, ciò che porta dal rassicurante ambito del quotidiano in un ambito non familiare, non conosciuto, nell’ambito silente, più nascosto e oscuro della personalità che per questo aspetto è pertanto spaventoso. Per altro pare che nel film la presenza del doppio invada ogni campo, molto esplicitamente, non solo il mondo delle ombre, ma anche, detto per assurdo, la realtà della chiave, come anticipato. Di fatto, mentre riflette sull’insuccesso della sua indagine e sta per archiviarne i documenti, esce il doppione della chiave che viene preso in considerazione dal commissario, come guidato inconsciamente ad averne attenzione. Ma anche altre volte il capo del commissario rientra come dentro se stesso piegandosi appositamente verso il basso così che il cappello nero in qualche misura oscuri il volto e di nuovo si abbia qualche lampo della sua figura umbratile: l’inconscio del commissario che indaga tutto quanto lo attornia ad insaputa del prossimo ignaro della sua vera natura di persecutore inflessibile del crimine, natura che il commissario dissimula spesso sotto un’apparenza di persona bonacciona, non temibile.
Inconscio che emerge nel commissario a insaputa degli altri e in parte anche a semi insaputa di se stesso, come in un gioco di rivelazione dell’inconscio, gioco espresso iconicamente da Germi in un vero capolavoro con le ombre, come se l’inconscio del commissario gli prendesse la mano affacciandosi dall’oscurità senza che il commissario quasi se ne avvedesse – ossia se ne avvedesse solo il regista per così dire. A questo punto risulta più chiaro anche il motivo per cui il commissario porti quasi sempre il cappello nero e spesso anche gli occhiali scuri a copertura degli occhi, dello sguardo, cappello e occhiali che sono gli immancabili strumenti di un mascheramento che nasconda l’identità delle persone, un po’ come le ombre nascondono i tratti identitari, la vera natura del commissario che in realtà non ha pietà di nessuno nelle sue indagini e nel suo giudizio sulla disonestà, sulla menzogna, sull’ipocrisia. Ricapitolando: è già stato sottolineato come le ombre del commissario siano i fedelissimi del suo inconscio con cui intrattiene un rapporto privilegiato ad insaputa dei suoi agenti e del prossimo – salvo quando non resiste alla tentazione, inconscia, di presentarsi qui e là per un rapidissimo flash come ombra egli stesso, mostrando chi stia dietro la sua figura in carne ed ossa, sdoppiato con il suo sé più nascosto, meno percepito e per questo sinistro e temibile, come in agguato su una umanità variamente corrotta e negativa fino anche alla perpetrazione di un omicidio. Le sue ombre come la sua mente senza corpo, ombre e mente che in quanto immateriali si associano, come nelle antiche e magiche tradizioni popolari, a un metaforico spirito invincibile che trapassi i corpi, quasi potendo andare ovunque superando l’ostacolo della materia. Parallelamente per contrasto, nessuno dei suoi agenti capisce qualcosa relativamente ai colpevoli delle due azioni criminose, il furto in casa Anzaloni e l’omicidio in casa Banducci, e si può constatare come essi abbiano spesso se non sempre ombre non incisive, non di rado sfumate, non pregnanti, ossia non possano contare sul loro inconscio più che per qualche dettaglio non troppo rilevante essendo persone di tutta superficie, capaci solo di eseguire ordini.
C’è un’altra ombra doppia che permane per un quasi invisibile flash, quella del brigadiere dei carabinieri Walter Tomea, veneto, personaggio per altro simpaticissimo che fornisce il nome del ladro di gioielli in Casa Anzaloni, Enea Retalli, l’uomo di Camilla Mattonari, donna “un po’ schedata” come la definisce Saro. È in ogni caso, malgrado la tradizionale presentazione dei carabinieri come non troppo svegli e perspicaci che viene ridata con finissimo humour anche nel film – per altro ricco di spunti di una comicità piacevole –, l’unico collaboratore intelligente: dà informazioni utili, frutto di ricerca e di ragionamento sugli eventi e sulle persone, può meritare la visibilità, anche se solo meno che momentanea, della sua ombra, del suo sé inconscio, sdoppiato in parte all’ingresso dell’osteria dove in una inquadratura a lui dedicata appare in pieno assetto professionale, nella divisa nera dei carabinieri che intimidisce i proprietari dell’osteria, persone della microdelinquenza, della prostituzione.
Accanto al tema delle ombre, sta il tema preannunciato della donna, anzi di un tipo di donna di cui c’è qualche anticipazione nel film L’uomo di paglia.
Negli altri due film citati l’interpretazione dell’amore e del senso materno della donna sono un motivo di centrale importanza esemplificato attraverso la presenza di donne sia negative nella gestione degli affetti, sia positive, capaci di salvare l’unione familiare e di tenere coeso il gruppo con l’affetto e la loro moralità – non con la passione unicamente sessuale adatta a distruggere, non a costruire. Per dare qualche breve riferimento: nel Ferroviere la moglie e madre, Sara, riusciva a riportare tutti i membri della sua famiglia sulla retta via per così dire; nell’Uomo di paglia Luisa, di nuovo la moglie e la madre, riusciva a salvare almeno in parte l’unione familiare compromessa dal marito appunto uomo di paglia, mentre la donna irrimediabilmente negativa e dai nervi fragili era la giovane Rita, sessualmente passionale, incapace di essere per così dire moderna e incapace ormai anche di essere tradizionalmente impostata. In Un Maledetto imbroglio Germi sferra un affondo senza pari contro il tipo di donna impersonata dalla protagonista Assuntina. Significativa al proposito è la più sopra citata colonna sonora principale del film che Germi ha curato in prima persona facendone la sintesi del messaggio del film. Il titolo Sinnò me moro, Se no (mi) muoio, esplicita il tipo di amore che la protagonista offre all’uomo: irragionevolmente senza quartiere. Germi, a supporto della sua tesi riguardo al possibile attaccamento femminile all’uomo con cui c’è stato un rapporto sessuale – ben diversamente dall’uomo che non sviluppa, nel film di Germi, il medesimo attaccamento che spinge talora la donna a diventare ossessivamente possessiva –, presenta anche altre donne che interpretano l’amore come un attaccamento irrazionale e senza rimedio. Una vecchia, picchiata per l’ennesima volta dal marito che essa denuncia alla polizia, non vorrebbe poi che lo arrestassero e dice che in fondo non le aveva fatto male e che voleva solo che i poliziotti lo sgridassero un po’. La povera donna in preda al proprio patetico attaccamento per l’uomo sorto sul piano fisico, dell’innamoramento e del rapporto sessuale, ormai ridotto a un meccanismo che continuava a essere solo in quanto instauratosi profondamente e acriticamente nel cervello proprio attraverso il rapporto sessuale, ossia del dominio maschile sulla donna, si reca alla Squadra Mobile per implorare tutti i poliziotti che incrocia, anche il commissario, di non fare andare in galera il suo uomo – che presumibilmente le ha spaccato i denti a furia di percosse nelle varie occasioni – e questo non tanto per paura della sua reazione, ma per incapacità di stargli lontana, così che si è auto convinta che in fondo l’uomo sia addirittura buono, una donna cui anche le botte più scatenate sono accettabili se non quasi gradite non essendo essa in grado di stare lontano psicofisicamente dall’uomo che la possiede, di fatto la vecchia con i denti rotti verosimilmente da lui non vorrebbe che andasse in carcere, dove non le potrebbe più stare sempre vicino, magari picchiandola selvaggiamente, ma vicino fisicamente comunque: le botte in sostituzione dei baci, ma comunque gradite addirittura esse piuttosto che la lontananza fisica dall’uomo. Virginia stessa, la bella fanciulla sedotta dall’attempato e grassoccio, ben poco appetibile Banducci, non vuole separarsi da lui non solo per l’interesse materiale pure esistente, ma, più profondamente, perché il rapporto sessuale con l’uomo l’ha legata molto fortemente a lui, ciò che non è accaduto viceversa per l’uomo. Al momento di essere abbandonata dall’uomo minaccia di ammazzare tutti: moglie di Banducci, Banducci e anche se stessa. Questo non accade per affetto, bensì per il tipo di attaccamento che ha ingenerato in lei la relazione sessuale con l’uomo, una relazione che ha creato dipendenza. Liliana Banducci appare diversa dalle altre donne citate, di fatto disereda il marito che l’ha tradita con Virginia come ha scoperto essa di persona, ossia ha una reazione razionale al tradimento, tuttavia neppure lei si separa dal marito, in altri termini: pur diseredandolo, resta a convivere con lui, lo tiene vicino senza ossessionarlo in un legame che asnch’essa non sente più in ogni caso. Ricapitolando quindi, non solo Assuntina, ma anche Virginia e addirittura la povera vecchia incarnano il tipo di donna che non capisce più niente nel suo legame con l’uomo con cui ha avuto o ha ancora un rapporto sessuale, anche se quest’uomo la tradisce, la maltratta e la stessa Liliana, come già detto, pur non perdendo l’equilibrio e mantenendo la propria razionalità, non si distacca dal marito, probabilmente o apparentemente per motivi religiosi, che però non escludono una forma di attaccamento simile anche in essa. Di fatto Germi avrebbe potuto fare in modo che la Banducci lo mandasse via pur senza separarsene legalmente tenendo con ciò in piedi l’indissolubilità del matrimonio secondo gli eventuali scrupoli religiosi, ma appunto Germi la fa rimanere accanto a un tale uomo, a convivere nella medesima casa con lui. Significative sono le inquadrature che all’inizio del film mostrano la signora in un mezzo primo piano strettamente unita ad Assuntina, ad un certo punto le tiene anche la mano come a proteggerla. In quell’occasione la Banducci dichiara di garantire lei stessa per Assuntina riguardo al furto in Casa Anzaloni, come in un senso materno grazie al quale la Banducci si inventa per Assuntina una garanzia morale che non può dare su nessuna base concreta e che dà solo all’interno della sua interpretazione del senso materno frustrato dalla mancanza di figli, ciò su cui torneremo fra poco, una garanzia quindi data acriticamente ed erroneamente. Poco dopo Assuntina, vedendo Diomede circondato dai poliziotti, corre verso di lui e lo abbraccia stretto come per proteggerlo gridando che lui non c’entra per niente nel furto perché lo dice lei, non lo lascia neanche parlare per discolparsi eventualmente, parla e decide per lui che è come interdetto dal dire e dall’agire dal suo, di lei, cosiddetto amore. La cosa fortemente indisponente in questa donna è, come accennato, che essa crede che i poliziotti prestino fede a quello che essa va dicendo in preda al suo attaccamento delirante, folle, senza prove di quanto dice, solo in base alle menzogne che inventa lì per lì per scagionare Diomede. Assuntina e la Banducci vicinissime nella citata inquadratura: due donne per qualche aspetto in parte simili, specificamente nel fatto che, grazie al loro amore o attaccamento irrazionale, vorrebbero decidere per coloro che amano in tal modo – la Banducci non capisce chi sia Assuntina e neanche Diomede giudicando solo con la sua affettività, quindi sbagliando il giudizio. La citata canzone Sinnò me moro, specificamente adatta ad Assuntina, parla appunto di questo tipo di amore, di attaccamento e dice esplicitamente che la donna in caso di separazione dall’uomo morirebbe, ciò con cui viene confermata la patologica degenerazione della passione in un tipo di donna scarsamente intelligente, passione, ribadendo, di natura sessuale, non affettiva, come lo sono tutte le passioni: erotiche per eccellenza, mentre l’affetto modera la passione o la fa addirittura eventualmente cessare se necessarii. L’amore sessuale della donna dunque, nel film, viene presentato nel suo lato negativo di attaccamento esagerato fino alla perdita della ragione e della dignità. In questo film i maschi nei personaggi di Banducci, Valdarena, Diomede certo sono infedeli, ma appaiono più equilibrati nelle faccende amorose. Remo Banducci, che non sente più alcun trasporto erotico per la moglie, ha della tenera amicizia o affetto per lei. Anche Diomede, che pure perde il controllo durante il furto e uccide la signora, vorrebbe togliersi Assuntina di dosso e non lo fa anche solo perché gli fa pena, non certo per passione che non nutre o non nutre più per lei. Quanto ad Assuntina, per chiarire: Germi ha rappresentato in lei molto realisticamente la donna ottusa che mente sempre non per il suo affetto, ma per il suo attaccamento insensato all’uomo, tale che non se ne sa separare, neanche la confessione che Diomede le fa prima del loro matrimonio riguardo all’omicidio da lui commesso la dissuade e anzi, quando nella casupola crede di poter uscire per andare ad avvertire Diomede affinché possa fuggire, passa in tutta fretta davanti all’altarino di Sant’Antonio nella sua stanza e si fa il segno della croce, verosimilmente per chiedergli di aiutarla a far fuggire l’assassino – così come Virginia fa una novena in chiesa alla Madonna perché le faccia la grazia di far morire la moglie di Banducci e avere così via libera con l’uomo. Anche il sentimento religioso viene deformato a misura dell’orizzonte mentale in tali donne, Assuntina e Virginia, tra le quali Assuntina è la più ossessiva – Virginia è dotata comunque di maggiore realismo nei confronti di Banducci. Ottima davvero è la performance da parte della Cardinale nella parte di Assuntina quando nella sua casupola nega sfrontatamente davanti al commissario che il colpevole sia Diomede e dice al commissario che si sta inventando tutto lui e che il commissario non riuscirà mai a dimostrare la colpevolezza di Diomede. Nel dire queste insensatezze parla tanto in fretta che neppure si capisce quello che dice ed è così odiosa nel suo fanatismo che il commissario, come accennato, si spazientisce e le mette le mani addosso, non picchiandola come si deduce che quasi vorrebbe, ma comunque afferrandole le mascelle violentemente per chiuderle la bocca e farla stare zitta, così che smetta di dire falsità come una macchinetta e di credere con la sua stolta difesa del suo uomo di poter avere ragione degli esiti dell’indagine del commissario che accusa di inventarsi tutto, ben sapendo che non è vero. Quando subito dopo si affaccia alla porta Diomede ignaro di trovare la polizia in casa, Assuntina gli grida di scappare e trattiene per la giacca il commissario credendo così di poterlo fermare, di riuscire a non fare arrestare Diomede, tutto ciò in un massimo di ottundimento mentale che Germi ha saputo rappresentare impeccabilmente attraverso l’interpretazione altrettanto impeccabile della Cardinale. Anche in occasione del sospetto del commissario verso Diomede per il furto in Casa Anzaloni, Assuntina lo tira per la giacca gridando che non è stato Diomede a commettere il furto, lo giura essa stessa e aggiunge che può giurarlo anche Diomede stesso, quasi avesse valore principalmente quello che dice lei non si sa in base a che cosa se non in base alla sua ottusa presunzione e Diomede, esautorato, potesse solo confermare quanto essa dice e non fosse logico il contrario. Non solo: quando la macchina del commissario porta via Diomede, Assuntina rincorre la macchina stessa urlando il nome di Diomede e dicendo ai poliziotti in romanesco di fermarsi: “Fermateve!”, ancora non avendo nessun riconoscimento per l’autorità della polizia e credendo, ancora ad oltranza, di poter dare ordini alla polizia, di poter essere obbedita e scagionare così Diomede che ha confessato il delitto n on solo a lei in precedenza, ma anche alla polizia stessa, ossia senza tenere conto alcuno della realtà dei fatti.
È il caso di ricordare che il film non rappresenta una storia di sangue e passione i quali non sono collegati in nessun modo nella vicenda delittuosa: l’omicidio viene commesso in occasione di un furto, non è un delitto passionale e la passione di Assuntina per Diomede non scatena nessun atto cruento, solo mette in evidenza la estesa immoralità della stessa, la sua capacità di mentire sconsideratamente, la sua scarsa disposizione al rispetto delle regole sociali, delle gerarchie, la sua mancanza di dignità qualsiasi. Quando parla con la Banducci riferendosi al commissario e ai poliziotti che secondo lei osano interrogarla su Diomede, parla di essi come di “questi”, chiede due volte alla Banducci che cosa vogliano “questi”: “Ma che vonno questi?” con tono arrogante, essendo incapace di avere anche un minimo senso sociale ed essendo capace solo di mentire spudoratamente, nonché poi anche di vivere con l’assassino della sua benefattrice, basta non separarsi da lui che la domina anche se non la vuole più. Tra i due, è più umano Diomede di quanto lo possa apparire Assuntina. Assuntina ha qualche tratto della donna criticata da Lombroso che afferma che, mancando la donna di intelligenza, essa è anche del tutto immorale, essendo la moralità collegata alla capacità di ragionare. Ma la donna cui si riferiscono irresponsabilmente Lombroso e anche Gadda è la madre – anche la migliore madre per Lombroso –, mentre la Assuntina di Germi è incinta sì, ma non per questo motivo è attaccata irrazionalmente a Diomede, mentre la Banducci, pur soffrendo per non avere avuto figli, diversamente dalla Balducci di Gadda, è del tutto in sentore e razionalmente impostata.
Una parola ancora sulla Banducci di Germi e sulla Balducci di Gadda, personaggi molto diversi nei due autori. In Gadda vi è nel rapporto tra Virginia, non Assuntina, e la Balducci la possibilità di una certa attrazione omosessuale, per altro non proprio tanto lieve per quanto sta scritto nel romanzo (Gadda in Adelphi: 150-151), dove pare che Virginia baciasse la Balducci sulla bocca, senza che questa si liberasse. Nel film di Germi non vi è nulla di tutto ciò e si può vedere come Germi nobiliti tale personaggio femminile che ha sì una nostalgia materna da mamma chioccia per così dire, ma che resta tuttavia nei limiti del comprensibile e non dannoso. Si tratta di una figura di donna che si situa nell’ambito del positivo: è fedele, aiuta le giovani che non sono ricche come lei a formarsi una famiglia, quella che essa non ha potuto avere, si accontenta del suo ruolo di moglie e di madre sfortunata, reagisce al tradimento del marito non facendo altro che diseredarlo a favore soprattutto di un Istituto di Suore di Maria Bambina, ma tutto finisce lì. La signora Balducci in Gadda è donna del tutto schiava del suo senso materno andato fuori dai ranghi, come se tutta la sua personalità si riducesse a pensare ai figli che non ha avuto e che vorrebbe avere in qualche modo. Gadda, piuttosto o anche forse del tutto misogino nel romanzo, descrive le donne, compresa la Balducci, in sintonia con quanto aveva scritto Cesare Lombroso (Frigessi a cura di, in Cesare Lombroso Scritti scelti, 2000: 603-631). La donna presa in generale nel romanzo di Gadda è una donna priva di facoltà raziocinante avendo il cervello “centrogravitato sugli ovarii” (Gadda in Adelphi: 115-116) e incapace di pensare razionalmente e fare alcunché di sensato, tranne che appoggiarsi all’uomo o cercare di imitarlo per il possibile. Addirittura la Balducci pensa di farsi dare in adozione da Valdarena il suo primo figlio, ciò che è disposta a pagare in denaro e gioielli. Germi, come accennato, presenta una Banducci diversa, sensibile, capace di prendere iniziative, signorile, per nulla attratta omosessualmente dalle sue giovani donne di servizio – nella visita del commissario in casa sua si sente anzi attratta da un uomo come lui. Certo è rammaricata di non avere avuto figli, come può esserlo chiunque, ma non è esageratamente fissata sull’argomento. In questo film dunque Germi salva la donna che ha un istinto materno che si mantiene nella norma pur se sente profonda nostalgia per la mancata maternità. E per altro il commissario ha una evidente simpatia per la Banducci, riconoscendone non solo la bellezza e l’eleganza del tratto – l’interprete è Eleonora Rossi Drago –, ma anche il buon carattere, onesto e limpido, non affatto collegato a quanto dicono della donna Lombroso e il commissario in Gadda all’unisono, negativamente evoluzionisti in questo frangente, anzi Germi è in contrasto sulla rappresentanza del femminile in generale come in Lombroso e Gadda – Germi smaschera solo un tipo di donna, non la donna in generale di cui riconosce i pregi tradizionali, come pure negli altri due grandi film.
Il commissario, dopo la confessione di Diomede, ha un mezzo cenno di compassione per il povero disgraziato che è sinceramente pentito del crimine che ha commesso non per vera malvagità, ma perché ha perduto il controllo per il timore di essere denunciato. Quando questi dice al commissario di aver rivelato ad Assuntina di avere ucciso la signora Banducci, il commissario gli chiede se glielo abbia detto prima o dopo il matrimonio e apprende che glielo ha detto prima di sposarsi. Allora, alla dichiarazione di Diomede di averglielo detto prima perché voleva lasciarla non volendola più anche se l’aveva messa incinta, il commissario non gli dice niente di riprovevole per questo anche se certamente non lo apprezza, né lo guarda con particolare disprezzo, esprime invece il suo totale disprezzo per Assuntina per il fatto che lo abbia sposato lo stesso, pur sapendo la verità, una donna incapace di fungere da punto di riferimento morale per il suo uomo. E per finire, quando i suoi agenti portano via Diomede, il commissario, prima di andarsene, guarda Assuntina senza dire una parola, ma solo accomiatandosi con uno sguardo di totale riprovazione, senza pietà per lei, per la donna che invece di aiutare eventualmente l’uomo a restare o tornare sulla retta via, difende un assassino, donna che il commissario non arresta perché ha pietà del suo stato di gravidanza, non di lei, e per il fatto che glielo chiede Diomede in quanto la donna, giura Diomede dicendo la verità, non ne sapeva niente della sua intenzione di rubare in Casa Banducci – ma sapeva ormai che Diomede era l’assassino.
Diomede, il ladro e omicida, non mente nel film, in questo migliore di Assuntina. Dice la verità nelle due occasioni del furto in Casa Anzaloni e della tragedia in Casa Banducci, non mente come Assuntina e per questo non venendo del tutto disprezzato dal commissario come invece avviene appunto nei confronti di Assuntina. A Diomede, alla fine della vicenda, dispiace di dover lasciare sola Assuntina, la futura madre di suo figlio, ma tuttavia si evidenzia nel film e anche nel finale come non ne sopporti l’asfissiante e ossessivo attaccamento che la lega a lui, non lasciandolo vivere liberamente visto che lui se ne sarebbe voluto andare perché non più interessato a lei o non sopportandola più. Per altro il cosiddetto amore di Assuntina per l’uomo non è, come accennato, il tipo di amore della donna – criticabile o meno – che sostiene quattro e anche cinque cantoni nella famiglia e ricompone gli eventuali errori anche gravi dei membri del suo gruppo familiare secondo canoni di onestà e di giustizia. Nel film non ha molto spazio neanche la citata attesa di un figlio da parte di Assuntina, tanto che sembra quasi che essa adoperi tale stato in primo luogo per tenere legato a sé Diomede. Ribadendo, il suo amore per Diomede non impedisce all’uomo di rubare e di uccidere, essa solo lo difende acriticamente per non doversene separare e lo tiene vicino senza che lui sconti la sua pena, che paghi per il delitto tanto atroce. Certo, gli dice che sconteranno assieme per tutta la vita, ma una cosa è scontare il crimine pagando il debito con la società attraverso la pena del carcere eventualmente a vita o per quasi tutta la vita, altra è vivere assieme liberamente, godendo comunque delle gioie familiari ed esistenziali quali che siano. Nel caso di una donna come Assuntina l’affettività risulta soprattutto, anche se non solo e non del tutto, un alibi per dare una giustificazione all’attaccamento patologico per l’uomo, attaccamento, va ribadito ancora, di natura sessuale come lo è l’innamoramento e come lo è la passione che è un aumentativo dell’innamoramento e comunque questo è quanto risulta dal messaggio centrale del film.
Diversa dall’ossessiva Assuntina è ad esempio Camilla – che, come anticipato, risulta un po’ “schedata” nelle parole del maresciallo Saro –, la quale, nel film, in qualità di donna di facili costumi non sviluppa nessun attaccamento patologico con nessuno e ride della sorella innamorata del suo uomo. L’ambito della prostituzione e dei facili costumi risulta anche in questo film, come in quello precedente L’uomo di paglia, affine come mentalità a quello maschile, nel senso che le donne di questo tipo non sono afflitte dallo sviluppo di attaccamenti patologici, così come gli uomini in questo film si staccano dalle loro donne senza tragedie – stiamo sempre valutando il messaggio oggettivo del film, quanto Germi ha oggettivamente voluto esprimere in esso.
Il genere poliziesco si presta più di altri generi cinematografici a dare una anche molto profonda analisi del tessuto sociale e anche qui emerge il messaggio di Germi sulla varia umanità che risulta in alcuni casi afflitta da un ampio tasso di immoralità. Ci sono anche donne, come la matura americana, che reclutano giovani maschi per il loro piacere e li pagano per i loro servizi, magari con gioielli. Ci sono poi famiglie che gestiscono alberghi a ore per maturi uomini perbene che se la fanno in realtà con giovinette, insomma il sesso non mantenuto, sempre secondo la presentazione di Germi, nei ranghi della dignità morale sembra un buon percorso verso l’immoralità n generale. Ossia, in questo film di Pietro Germi, il marcio è portato soprattutto da una sessualità non dignitosamente gestita, ossia gestita nell’ipocrisia generale che, secondo il messaggio, sembra giungere a livelli di – vera secondo Germi – immoralità diffusa. Viene presentato anche l’ambiente sordido dei riciclatori dei bottini dei furti nella bassa microcriminalità – anche qui con la promiscuità sessuale e la mancanza di dignità, ambiente che non va esente comunque da punte di vero e spassosissimo humour per alleggerire l’atmosfera greve, come quando Toni Ucci, er patata in gergo, canta in un’osteria una canzone in romanesco e vedendo i poliziotti che capisce venuti per arrestarlo chiede di terminare la canzone regolarmente, per dire poi che non ha nessuna refurtiva, mentre l’ha nascosta nella chitarra stessa, come il poliziotto Saro sospetta e conferma spaccandogli la chitarra e trovandovi dentro i gioielli rubati, ciò che accade anche con punte di simpatia verso tali delinquenti per così dire della povertà.
Molto ci sarebbe ancora da dire su questo complesso e interessantissimo oltre che bellissimo film, di cui questa analisi ha messo in evidenza i punti di sintesi più rilevanti per i messaggi stanti alla base dell’opera di Pietro Germi.
Per finire, una parola sul titolo. Potrebbe sembrare che imbroglio significhi truffa, inganno, come di fatto significa normalmente in italiano. Tuttavia imbroglio, nell’uso linguistico specialmente dell’italiano settentrionale, significa anche comunemente qualcosa di confuso, un groviglio che debba essere messo in ordine ed è esattamente quanto fa il commissario nella sua indagine finalizzata a sbrogliare la matassa, il groviglio – Pietro Germi era settentrionale, genovese. Pasticcio non ha il significato diretto di inganno che ha in Gadda, termine più adatto al messaggio contenuto nel romanzo di Gadda – vedi titolo all’inizio di questo studio –, così come imbroglio nelle due accezioni risulta più adatto al film di Pietro Germi.